lunedì 30 luglio 2012

E' l'ora del quotidiano!

Affrontare la lettura del quotidiano con le cesoie. Via lo sport, non m'interessa ma bravi tutti ( non critico un atleta perché non è arrivato uno...ciau mama). Via la politica economica, mi fa venire l'ansia e poi a destra Monti è una merda, a sinistra è capace ma noi potremmo fare di meglio, al centro è un sant'uomo.Via la cultura, tutte markette.Via l'opinionista, è un prezzolato dei partiti.Via la pubblicità, chi se ne frega. Via le foto delle gnocche, sono etero e misogina grazie a 36 anni di lavoro trascorsi con sole donne.Via gli articoli sulla salute: a turni esaltano o demonizzano un cibo o un'attività e poi adesso è il boom dei naturopati che, dopo gli iridologi, sono utili come la cacca dei piccioni. Mi resta la cronaca nera. Andiamo a vedere chi ha ammazzato chi,dai. Sempre che me ne freghi qualcosa.



Il decalogo del pacifinto

Il pacifinto è contro le guerre in cui siano coinvolti i Mericani, delle altre importa sega
Il pacifinto è ecumenico quanto una setta satanica
Il pacifinto ama il volontariato soltanto nei Paesi in cui operino i guerriglieri
Il pacifinto non s'indigna mai se rapiscono un militare, possono anche scioglierlo nell'acido
Il pacifinto ama i colori ma secondo me è daltonico, alcuni non li riconosce
Il pacifinto invita il governo a pagare il riscatto per intero dei suoi amici, per gli altri si può fare in comode rate, per riavere il rapito un po' alle volta
Il pacifinto si lamenta un giorno sì e  l'altro pure delle spese in armamenti, soldi che potrebbero essere usati per combattere la fame nel mondo, ma fa finta di non sapere che milioni di euro dati ai ribelli finiscono in statuine di Limoges da mettere in palio nelle lotterie parrocchiali
Il pacifinto ama il Che ed è convinto che, da ragazzo, giocasse a calcetto con Gandhi
Il pacifinto se proprio deve essere religioso, è buddhista, ma non sa che cosa significhi
Il pacifinto ama la fratellanza tra i popoli e soccorre lo straniero sul suo territorio, purché non sia biondo, perché è l'uomo bianco buana cattivo e tutti i mali del mondo sono colpa sua.

Undicesimo comandamento: il pacifinto ha bisogno di un eroe morto, di tanto in tanto ( sorvoliamo sul Pelliccia, che è bell'e vivo)

venerdì 27 luglio 2012

Bellezze perdute


Son passi d'ondina
sghembe scivolate
sogni infranti sugli scogli
tutti i tuoi pensieri sparsi
ma metteremo una pinza
e saranno più composti
al vento del tempo.
Offri lacrime d'argento
sonore come risa
ma non è una goccia
che lava via il tuo presente incrostato.



Gato Barbieri "Marnie" (1974)

domenica 22 luglio 2012

Troppo facile

...parlare di sciocchezze,che ne richiamano altre in un pour parlér che ha lo scopo di alleggerire la realtà, perché non si sa dire ciò che è, più facile il vanto, il rimprovero: posso dire invece d'essere fiera di te, ché hai metabolizzato un gran dolore con estrema dignità, l'hai portato al mare con fiducia al  mio fianco,non ti sei mai lamentato e non hai pianto.E non sei forte, ma lo sei diventato.

La direzione delle nuvole.



La direzione delle nuvole.

Lei scriveva da una cameretta che aveva conservato le sue caratteristiche fanciullesche. Troppo rosa. Nelle tendine ai vetri, nei pupazzi seduti tutti in fila su una mensola ( uno era rosa anch’esso, un coniglietto con un grembiulino a quadrettini), nelle bambole sedute su una poltroncina che non usava mai. Aveva in camera due poltroncine gemelle, tappezzate di minuti fiorellini rosa antico. Su una di esse: bambole di porcellana con i capelli a boccoli, sull’altra il gatto. Un grosso gatto rosso, tigrato e indifferente, pigro. Alle pareti una tappezzeria di stoffa: rose di macchia. A terra un tappeto moderno a riquadri lilla e violetti.
Lui scriveva dal suo studiolo, ricavato tramezzando la camera del figlio. Una scrivania, un computer, uno scaffale per archiviare scartoffie, modellini realizzati tempo prima, quando ancora si dilettava di soldatini in miniatura di varie epoche storiche, il plastico della battaglia di Marengo, un veliero in bottiglia. Un trofeo di calcetto, una foto di Pantani autografata e sorridente.
L’appuntamento era ogni sera intorno alle 21.00.
Chattavano, dapprima. Serate che svanivano in un soffio a raccontarsi. Non tanto del presente, quanto del passato. Avevano amato gli stessi cartoni, mangiato le stesse merendine, indossato a viva forza cuffie di lana ,confezionate da nonne solerti , che facevano prudere la fronte fino a tirarsele via di testa e restare spettinati e furenti, rossi in viso e infreddoliti poco dopo averle tolte. Tanto da ricacciarsele in testa.
Avevano amato la stessa musica, balsamo per l’animo dopo una delusione d’amore.
Avevano avuto la stessa marca di  motorino.
Avevano visto il mare per la prima volta a sette anni compiuti, in una gita ai centri estivi. Lei, figlia di fruttivendolo. Lui, figlio di un ciclista. Cresciuti in cortile, entrambi avevano giocato a nascondino in cantina, al gioco della bottiglia e avevano rubato le sigarette a mamma e papà.
Il tempo era trascorso. Tanto da metterli a scriversi, per ore ed ore, davanti a un pc.
Si erano spediti le prime foto per Natale.
Lui bruno, lei bionda.
“Carino - pensò lei – un sorriso neanche poi così sfrontato”, nonostante la posa da duro, il ciuffo scomposto, la birra sul tavolo.
“ Bellina - pensò lui – ha gli occhi azzurri e grandi, ma non se la tira per niente, sembra una ragazza semplice”. Così pareva, bella, ma in una posa un po’ statica, sorriso abbozzato, mani sul grembo.
L’appuntamento alle 21.00 non bastò più.
Ben presto a lui venne voglia di verificare sullo smartphone se c’era una sua email.
In lei nacque il desiderio di mandargli il primo saluto del mattino e l’ultimo della sera.
S’intrecciava fitta, la corrispondenza ad ogni ora del giorno e anche della notte, se uno dei due era sveglio.
Avvertivano, l’una dell’altro, l’insoddisfazione, la mestizia di una vita un po’ deludente, ma trapelava poco del vissuto. Sì, accenni al lavoro, da parte di lui. Un mestiere insoddisfacente, scelto più per caso che per volontà. Lei studiava, fuori corso da una vita. Problemi di famiglia e salute, aveva giustificato così la situazione.
A gennaio, un’altra foto, più audace.
Sì, era proprio bello, muscoloso anche se non palestrato.
Sì, era bella ma modesta, il seno bianco e la mollezza di un corpo procace ma pudico.
E poi le telefonate, strappate, rubate, ad ogni ora del giorno o della notte ai pasti e al sonno.
Così per una primavera intera, in cui fiorivano le stanze.
La cameretta rosa fluttuava tra i rampicanti, si riempiva di glicine di pensieri, si tingeva di verde speranza.
Lo studiolo era una rampa di lancio verso la conquista. Un’altra donna, un’altra vita, una fuga.
Non abitavano poi tanto lontani, due ore di treno, una e mezza d’auto.

Titubanti. Incerti. Indecisi.
Ho qualcosa da farmi perdonare, diceva lui.
Non sono quella che credi, ribatteva lei.
Non penso che a te, sosteneva lui.
Sei la mia vita, concluse lei, senza di te è finita, è un’altra rosa di macchia sulla tappezzeria.
Vediamoci. Si fece pressante lui.
Te ne pentirai, rispose lei, ma oramai il desiderio di starti vicina anche soltanto un po’ supera la paura.

Alessio si preparò. Lacoste bianca, jeans blu navy. Nike nuove.
La vera nuziale nel cassetto.
“ Le dirò poi, che sono sposato e lei non mi capisce. O le mie serate non sarebbero al pc. Sarà un’avventura, ma da ricordare, niente che potrà far male”.
Oramai era estate.
Lei indossò un abito rosa, che poi tolse. "Voglio qualcosa di meno lezioso- pensò -esco dal guscio”.
Appuntamento a Piazza Verdi, vicino all’edicola. L’avrebbe portata Carmela, un’amica, che fino all’ultimo le aveva detto: “Ma sei sicura? Sicura, sicura, sicura?”
Sicura. Sicura come la rosa che sa che se non sarà colta in ogni caso morirà.
Arrivò presto. Si piazzò in un punto in cui si poteva osservare il cielo e il passaggio delle nuvole. Se ne fissi una, capisci la sua lenta inesorabile direzione e t’accorgi se oscurerà il sole. Alice aspettava così, indovinando percorsi di nuvole vaganti.

Lui arrivò, dritti gli occhi verso l’edicola. Non c’era nessuno, s’innervosì.
O forse, no. Davanti ad una ragazza bruna, un po’ massiccia, c’era una sedia a rotelle. Sopra, una ragazza bionda, esile, con un abitino blu e gli occhi probabilmente azzurri.
Sentì un brivido freddo correre lungo la schiena, si era preparato un lungo discorso sulla relazione oramai finita con la moglie ( quella, totalmente ignara, forse un po’ disattenta, troppo “presa” dai figli per accorgersi della tresca fino a quel momento innocente.), per trovarsi una …una…

Paraplegica.
Se n’andò.

“Sono paraplegica dall’estate scorsa, Alessio, il brutto incidente di cui ti avevo parlato. Non ne sono uscita illesa, ti ho mentito, ma illesa uscirò da questa storia, anche se non sei venuto o forse c’eri, ma ti sei guardato bene dal farti vedere. Ne uscirò integra perché mi hai in ogni modo regalato mesi d’amore, d’illusione, di sogno e di follia. Credevo di non esserne più capace. Grazie di tutto”.

“Sono un vigliacco. Vigliacco e sposato, ma ti ringrazio, mi hai fatto capire d’essere meno infelice di ciò che credevo. Mi hai preso alla sprovvista, posso rivederti e offrirti un gelato?”

“No, sarebbe pietà”.

“Mi mancano i tuoi messaggi del buon mattino e della buona notte”.

“Ricominciamo?”

Ogni sera, alle 21.00, mentre Alba mette a letto i bambini, Alessio e Alice chattano.

E varcano i confini del possibile.





Allora sì, che t'amerà!

sabato 21 luglio 2012

Che domani si va tutti al mare :-)

Lettera a Rossella Urru

Cara Rossella,
personalmente sono contenta di vederla vispa e in salute accanto al nostro Premier tecnico.
Mi chiedo tuttavia perché lo Stato e di conseguenza gli Italiani tutti che pagano le tasse, debba pagare il suo esoso riscatto a gente che acquisterà armi. Non solo, la stessa gente che esulta al suo rilascio vede la corsa all'armamento occidentale come una spesa assurda ed eccessiva. Mi pare una contraddizione evidente.
Lei non è stata mandata dov'era dallo Stato, non era in quel luogo a nome del Paese, si occupa di volontariato.
Ebbene: se l'Associazione alla quale appartiene trova i mezzi per cooperare all'estero, può trovarli anche per una buona assicurazione,che copra le persone che impiega da ogni rischio e pericolo.Le zone "difficili" sono anche a rischio, è risaputo ma perché, di grazia, obbligare il popolo italiano nel suo complesso a partecipare, pagare di tasca sua, coprire lo spirito intraprendente ma anche temerario dimostrato?
Temo che volontariato come il suo la povera gente d'Italia non possa permetterselo.Già avevo storto il naso all'epoca delle due "Simone", a maggior ragione lo storco ora.
Sinceramente, volontariato, volendo se ne può fare a due passi da casa e il rischio peggiore che si corre è un portafogli rubato.
Ecco, a 20 euro ci arrivo, ma il guaio è che se lo pigliano a me a fine mese, devo tenere le monete in una busta di carta, perché non ho più denaro per riacquistare il portafogli.
Non le stringo la mano, le allungo un'affettuosa pedata.
Vuol tornare laggiù, stia più attenta.
Non posso lavorare fino a 70 anni per mantenerla.



venerdì 20 luglio 2012

Un uomo informato


Rosso Pomodoro

In omaggio, un racconto  noir.


Rosso Pomodoro

-         Anche questa è stata trovata morta, nel suo sangue,riversa sulla panchina su cui stava seduta, sfogliando una rivista, ottantenne,robusta, capello grigio corto, una canotta azzurrina e una gonna di cotone blu, ciabatte ai piedi…Nella borsetta c’era il portafogli, al collo aveva catenina e medaglione, non le è stato rubato nulla. Non di visibile, perlomeno. Al collo aveva un orologio di plastica. E’ pensionata. Pare che non se la passi bene. Sta al quartiere di Ripetta, in affitto. Le hanno dato una mazzata secca in testa, lì dov’era, ai giardinetti sotto casa, non passa nessuno a quell’ora. Gli anziani soffrono d’insonnia, vanno a far spesa, quando i supermercati aprono, sono già in giro presto, spesso. Pare morta dalle sei del mattino…
Fiorilli parlava infastidito al telefono, con un collega. Desolato, sinceramente dispiaciuto, oltre l’ovvia compartecipazione professionale. L’omicidio era assolutamente gratuito. Nel farlo tracciava segni su un foglio, ghirigori, senza senso.
Era una povera vecchia, soltanto una povera vecchia.
Non faceva del male a nessuno, non aveva beni particolari addosso. Soltanto a guardarla si capiva che non c’era nulla da estorcere o da rubare, tra ciò che aveva.
E non era la sola.
Altri due omicidi avevano lo stesso stampo.
Due donne anziane, poco abbienti, a distanza di un mese l’una dall’altra.
A Pandella avevano ammazzato una donna più o meno della stessa età, di taglia robusta ma piuttosto male in arnese, malferma sulle gambe, che indossava un lungo vestito di maglina e i gambaletti color carne. Dei sandali ortopedici più vecchi di lei. Aveva ancora il grembiule intorno alla vita, quando aveva aperto la porta e aveva fatto entrare nell’atrio il suo assassino. In casa, le solite cose: soprammobili, quadri di scarso pregio, pochi soldi nel barattolo del caffè, tre anelli d’oro in un portagioie, una collana di grani d’avorio.
Un paio di colpi sulla nuca bene assestati. Schizzi sulle pareti del corridoio.
A Romito l’anziana signora invece era stata colpita, mentre stava portando i sacchi della spazzatura alla rotonda dei cassonetti. Era stesa nella sua stessa immondizia, sparso il contenuto dei sacchi nella caduta intorno a sé. La collanina di perle di fiume era al suo posto, intorno al collo. L’avevano trovata i vicini, a faccia in giù nel pattume, una pantofola ai piedi e l’altra perduta, la faccia disfatta in una maschera di sangue, era caduta in avanti.
Fiorilli accostò le foto. Doveva esserci un tratto comune. Tutte ammazzate all’improvviso, senza troppi preamboli e tutte e tre con un colpo netto inferto in testa, dall’alto verso il basso e da una persona forte. Fisicamente abbastanza alta e robusta. Decisa.
L’assassino sembrava aver usato una corta pala da giardinaggio, di quelle pieghevoli. Si scorgevano dei segni netti, i lembi delle ferite combaciavano in una geometria perfetta. Segmenti di retta.
Le donne si assomigliavano.
Tutte le vittime erano anziane, con un aspetto ordinario, un vestiario molto semplice ma pulito. Tutte probabilmente un tempo brune ed ora con i capelli grigi, piuttosto grosse di corporatura. Simili…
Donne come in Italia, ce ne sono tante. Tratti mediterranei molto comuni.
Delle povere donne, delle povere nonne!
Ognuna aveva la foto del proprio nipotino, nella bustina portadocumenti.
Chi un nipotino piccino, bambino.
Chi un adolescente in una posa da bullo.
Chi un ragazzino buono, pettinato all’antica e fotografato a scuola.
Nonne che si adoperavano regolarmente per aiutar figlie e nuore.
Una foto e un disegno infantile piegato in quattro o in due, messo in borsa quasi prima di uscire o forse dal nipote stesso.
Borse più o meno tutte uguali. Pellame consunto o finta pelle, cineserie. Dentro, le solite cianfrusaglie.
Diede un’occhiata agli strazianti reperti. Povere cose…
Miseri oggetti da borsetta: chiavi, fazzoletti di carta e di cotone, un rosario, dei cerotti, un portapillole, lo scontrino del supermercato, caramelline, un santino, una borsa da shopping ben piegata a triangolo.
Dispiegò i disegni, li spianò con un gesto gentile, con la mano, di piatto.
E osservò.
Stranamente i disegni erano tutti recenti, sembravano realizzati da una mano unica, il tratto infantile ma non troppo.
Anche il soggetto raffigurato li univa.
C’erano bambini al mare. Un bambino era in spiaggia con paletta e secchiello, un altro era su una barca e uno imbracciava persino un fucile da sub e lo mostrava ad altri bambini. Tutti i soggetti erano coloratissimi negli abiti e nei tratti e con la loro bibita frizzante in mano in primo piano.
Su tutti, una scritta:…”ciao nonna, finalmente vado al mare!”.
O come didascalia o era un fumetto, disegnato accanto alla bocca dei bambini.
In casa sua, Ludovico, disabile adulto, rintanato al buio, stava chiuso nello sgabuzzino, mentre nonna, in cucina, passava pazientemente i pomodori.
-         Faremo tanta salsa, tesoro! Mamma e papà sono via e con chi resta Ludobello d’estate? Con nonnaaa. Così da sempre, amore. Anche ora che non ci sono più, sono via per sempre, in cielo… ma nonna c’è, nonna c’è sempre. Quando Ludobello darà una mano a nonna, allora potrà uscire e avrà la sua bibita. Non tolta dal frigo, come la bevono gli insensati. A temperatura ambiente, così non fa la bua al pancino.Sennò Lubobello resta in punizione. Fatta la salsa e la marmellata con tutte le susine che ci ha portato zia Lucia, allora potrà uscire un po’ e comprare le medicine a nonna, ma non deve impiegare troppo tempo. Si può sapere dove vai? Boh! Te ne sei stato fuori un po’ troppo, le volte scorse! Se lo farai ancora, Ludobello, starai in ginocchio a pregare davanti alla foto di nonno fino a notte fonda. E a proposito di nonno, caro, sabato mattina andremo al cimitero, a mettere a posto la siepe. Ci facciamo prestare la pala dal custode, ché la zappetta non basta più. Voglio piantare il pitosforo.Un bel cespuglio di pitosforo. Tu vanghi e io pianto. Me la dai una mano, Ludobello?La dai una mano a nonna?Eh, la dai?
Nonna Iva passava diligentemente i pomodori e colava nelle bottiglie la buona conserva per l’inverno, così appetitosa nel sugo. Ludovico ne mangiava tantissima. Nella pasta, sul riso, con la carne e il formaggio ma più spesso con il pane. La mangiava a pranzo e a cena, la pensione di nonna e la sua d’invalidità non permettevano molto altro. Mangiava pasta al pomodoro e beveva the freddo, preparato da nonna, in casa. Erano i costituenti del suo pasto quotidiano, tutto l’anno. Niente di gasato, fa male. Nonna Iva faceva economia, ma teneva alla salute.
Sì, non era più giovane ( e lo sguardo le andava alla foto sulla credenza, in cui era florida e bruna), ma aveva in sé molta forza e la capacità di risparmiare e di fare, per quel nipote buono e scioccone, sempre il meglio, anche per educarlo e non c’era metodo migliore dello sgabuzzino buio, del quale Ludovico aveva sempre avuto paura.
A che serve, in fondo, una nonna? A nutrire e a insegnare la buona creanza.
Pensando tutto ciò, si lisciava i fianchi grassi con le mani, pulendole nel grembiule.
Poi s’abbassava, a sistemare l’elastico dei gambaletti.
Non importa essere poveri, si diceva, basta essere giudiziosi.

giovedì 19 luglio 2012

Anime gemelle



Non è sempre così...a volte l'incontro è tardivo, altre è suggerito dalla cecità di una storia sbagliata, ogni fase è a sé.Ogni ciclo si conclude in un solo passaggio.Gli altri confondono l'amore con il mutuo soccorso.


mercoledì 18 luglio 2012

Tutto ha una morale: cicale cicale cicale

Itagliani

Attaccati a ideologie morte,progressisti agganciati alle cose vecchie ( c'è chi ha persino paura del "diario" di facebook), speranzosi in un leader come ai tempi del Duce, attaccati ai quattrini e al mattone ( gli Italiani sono secondi al mondo per il possesso di casa, una fregola che altrove non hanno), avventurosi aggrappati alle gonne della moglie, raccomandati ad oltranza, mafiosi nel cuore e nell'anima.Questi, gli uomini italiani.Le donne? Un fake. Un robusto fake con una calcolatrice incorporata.Fenditure verticali con il pallottoliere in testa.Si meritano tutti.Gli uni con le altre.


Umanità

La delusione più grande che ci sia, senza se e senza ma.

Molto difficile voler bene a qualcuno senza pensare che sia sprecato,assolutamente buttato.

Impossibile trovare corrispondenze , affinità elettive. Tempo perso, fastidio.



L'airone rosso

Il racconto che segue è uscito sull'antologia " Il gioiello di Chrono", Delmiglio Editore.
Prefazione di Claudio Gallo.

Rispetto alle tradizionali antologie “indaco”nel caso de " Il gioiello di Chrono", gli scrittori hanno dato vita a un esperimento letterario sicuramente interessante. Le storie, infatti, sono legate tra loro da un filo sottile, a volte impalpabile e sono racchiuse da un racconto cornice, come tante pietre in un’unica incastonatura.


Come spiega Claudio Gallo nella sua prefazione: “Quel lieve eco di classicità richiama la “novella a cornice”, una delle strutture letterarie di più antica tradizione. È un’architettura narrativa di grande fortuna, dalle Mille e una notte al Decamerone di Boccaccio, dal Decameroncino di Luigi Capuana alle Novelle marinaresche di Mastro Catrame di Emilio Salgari. Proprio a questa tradizione ricorre il libro curato da Emanuele Delmiglio, scrittore ed editore che ama, quasi sul modello boccacciano, riunire piccole brigate di autori che si mettono alla prova, scegliendo un tema guida cui fare riferimento. Non fuggono la peste, nemmeno vogliono guadagnare un giorno in più di vita come Shéhérazade, ma semplicemente si mettono alla prova per il piacere di raccontare.

L’airone rosso


Vittoria ha quarantacinque anni, sarà che presto saranno cinquanta, ché la vita trascorre in un soffio. Un battito di ciglia ed è subito menopausa, che poi non è che sia poi così male, a modo suo è liberazione da tante noie e paure, allora… liberaci o signore da tutti i mali, passati presenti e futuri!
Dai mali passati è difficile liberarsi, ma si può far finta di averlo fatto, prendendo tutto con nonchalance e la giusta distanza. Fingere, sublimare, nascondere, ignorare, rimuovere. Le modalità di distacco sono tante. Tutte illusorie, ma si va avanti, checché se ne dica, la vita prosegue e ci riserva  ancora colpi di scena.
Dei mali futuri si può avere timore, è lecito. Fa parte del gioco. Temere il futuro con un nodo in gola. Del presente invece ci si deve occupare, senza distrazioni. Rappresenta l’urgenza. L’urgenza di Vittoria è sopravvivere. Con dignità. Si è trovata, nella città dell’oro, da padroncina ad umile operaia. Ha provato a essere la signora di casa, la moglie ripudiata, la separata orgogliosamente indipendente ed infine, rimasta vedova, ha azzerato la sua storia personale.
E’ tornata al catename, a non riuscire ad alzare gli occhi un momento dalla routine, assemblando catene senza parlare, chiedendo timidamente di poter andare in bagno al bisogno.
Ordinarie catene. Più o meno pesanti, ma scontate, di serie, di moda o classiche. Così vuole chi sovrasta la produzione intera, il capitale straniero che qui ha investito, spegnendo a poco a poco la creatività individuale, che mantiene alta la testa dove sia possibile  con l’originalità che era di casa, nella città del Cellini. E per Cellini s’intende l’Istituto orafo. Siamo a Valenza Po, città della gioielleria elegante..
Vittoria lavora per sé e i suoi figli. Il suo compito è resistere ad ogni scossone, reggere le intemperie.
Questo è il presente. Fabbriche con dieci operai a Valenza e cinquanta in Cina o nell’Europa dell’est.
Del passato è restato un anello d’ametista al dito. Vi campeggia una gemma a marquise, montata in oro giallo. Il colore è intenso, pieno. Il taglio ne sottolinea l’eleganza di certi occhi femminili dell’immaginario: viola e brillanti.
La gemma riveste il dito di luce violetta, lo sfina, lo rende reliquia di Fata Turchina…
Vittoria aveva gli occhi di quello stesso colore, da ragazza. Occhi che sfidavano il cielo in originalità Nessun azzurro riusciva diventare più cupo e misterioso del blu violaceo di quello sguardo. Quello che sedusse Emilio, ma non fu vera gloria. Chi è abituato alle gemme può possederne tante senza amarne nessuna, per quanto sia un bacio al mirtillo.
Così Vittoria ora guarda verso il basso il catename che le dà da vivere, ora che è tornata ad essere operaia, ma l’anello che indossa parla di altri fasti. E’ un gioiello importante.
E’ anima di violetta e profumo Borsari…
Vittoria lo ebbe da Clara, pochi giorni prima del matrimonio.
Clara era la suocera e disse più o meno così: mio figlio è incostante, ama ciò che non ha, disprezza ciò che possiede, è disattento e nel gestire fortuna e fortune, è meglio che questo lo tenga tu. E’ una ricchezza di famiglia, appartiene a noi da più generazioni, la sua provenienza si perde nella notte dei tempi. A quarantacinque anni è regola non scritta passarlo ad una donna più giovane della famiglia, che rappresenti il futuro o, combinato con la saggezza acquisita, potrebbe dare luogo a fenomeni di preveggenza imbarazzanti o non sempre gradevoli e a volte persino insopportabili. Ricordalo.
Be’: la Clara, detto tra noi, era sempre stata matta. Matta come suo figlio.
E Vittoria controlla catene, le lascia scivolare tra le mani, ne scorre con le dita le maglie, controlla chiusure e indossa un anello antico, da signora, e la marquise violetta lancia i suoi bagliori  d’intorno. L’ametista conferisce equilibrio e umiltà, serenità e autostima anche in situazioni non ottimali e per Vittoria il passato è stato sicuramente più gratificante di un presente che a volte l’ha indotta a vendersi l’anello con pietra viola tagliata a marquise, ma Clara era una matta a modo suo buona, che era riuscita più volte a mantenere insieme le cose e le persone, facendo leva sul buon senso di ognuno. Morta lei, il disastro integrale.
Qualcosa le si doveva, anche senza credere nei poteri delle pietre preziose più di tanto.
Emilio era pieno di debiti, non c’era nulla da spartire, ma l’importante era non soccombere. Ricominciare. Vittoria aveva perciò raccolto il coraggio a due mani ed era andata a chiedere lavoro, offrendo la sua preparazione nel settore, accontentandosi di un’occupazione modesta, al di sotto delle competenze acquisite con l’esperienza.
Vittoria lavora davanti ad una finestra, ciò le permette di scorgere spesso il cielo e condividerne lo stato d’animo: azzurro limpido e terso, grigio plumbeo e triste, foschia velata di lacrime e pioggia. Si dice che davanti alla finestra si vedano alzarsi in volo gli aironi rossi della non lontana Garzaia, più qualche beccaccino e tarabusino ma Vittoria non ne ha mai visti librarsi, da quel quadretto di finestra.
Ha tuttavia in sé quella quiete interiore che le consente di sperare a metà, pazientando.
Dovrebbe, a sua volta, levare l’anello e consegnarlo nelle mani di sua figlia Alessia, ma lei non vuole saperne. Piuttosto un cello nuovo, ha detto. Un paio di stivali come si deve, senza tirare sempre al risparmio. Una vacanza a Formentera, sola con le amiche, finalmente, altro che un gioiello vetusto, che desterebbe l’ammirazione di pochi minuti e poi resterebbe qualcosa di totalmente inutile, abbandonato in fondo a un cassetto, per essere probabilmente rivenduto, prima o poi...
L’oro è un bene rifugio. Un tempo alle signore di casa si regalavano più gioielli e meno vacanze. Non che la conoscenza fosse meno importante di un gioiello, ma la si riteneva utile se costituiva un patrimonio e non si limitava ad essere puro divertimento. La vita era costellata di gioielli, che segnavano i passaggi. Il braccialettino con il nome inciso, da neonati. Gli orecchini per le femminucce. L’orologio d’oro, la catena con il ciondolo importante per la prima comunione. Il bracciale o l’anello di pregio per il compimento dei diciotto anni, il diploma, la laurea. L’anello, memorabile, di fidanzamento, la vera matrimoniale e poi altri pensieri: anniversari, nascita dei figli. I gioielli scandivano il tempo.
Vittoria pensa che la sua ametista sia un bene rifugio nel senso che quando porta quell’anello si sente una signora d’altri tempi, una signora vera e non importa se possieda più o meno denaro…scende in lei una calma profonda, a volte irreale, considerata la situazione. Quasi ottimista. C’è da pensare che sia vero che l’ametista possa trasmettere pace e tranquillità insperate…
Divinazione? No.
Le ravviva lo sguardo di ragazza.
Vedrò l’airone rosso sorvolare il centro città, se accadrà, si dice, e sorride.
L’altoparlante fa sentire netta una voce: Vittoria Taverna è desiderata dal Rag. Ferretti.
Un tuffo al cuore, Ferretti non è il padrone, ma è il suo tirapiedi. Che vorrà dirle? Che è lenta nella produzione? Che sta fantasticando?
Vittoria si stringe l’anello al dito, con pollice  e medio della mano destra. Un gesto scaramantico. Lo fa spesso.
Si sistema la gonna, passa le mani nei capelli a ravviarli.
E’ in piedi, davanti ad una scrivania. Ferretti è seduto.
 Con un giro di parole le fa capire che vorrebbe il suo anello. La sua signora ama i gioielli d’epoca e da tempo gli fa una testa tanta con il desiderio irrefrenabile di possedere un anello antico con un’ametista. Un anello esattamente come quello che lei indossa. Capricci di donna.
Anche questo, mi si vuol togliere, pensa Vittoria, triste.
I soldi proposti sono tanti.
Vittoria ha bisogno e vergogna di quel bisogno.
Ha in mente il viso di Clara perplesso, ma tutto è andato, azienda e amori. Resta uno straccio di famiglia che, dalla vendita, avrebbe sicuro vantaggio.
Se lo sfila.
Cedere ai capricci altrui il proprio passato è miserabile…
Nello squarcio di cielo che si vede dalla finestra dietro Ferretti, in quel medesimo istante, sfreccia un airone, rosso come un tramonto fuori orario, e la mente di Vittoria è, allo stesso tempo, squarciata da una visione: grave incidente d’auto, Ferretti tra le lamiere contorte. L’anello che rotola nel fosso e finisce giù, in fondo, nel fango, a far compagnia alle rane. Degna sepoltura del passato, che non torna per nessuno.
- Bene – dice Vittoria – mi dia la metà di quanto mi ha offerto ma in contanti. Subito. Sull’unghia.




lunedì 16 luglio 2012

Matrimoni gay

Matrimoni gay e pensioni di reversibilità.Conoscendo gli Italiani, non ci sarebbe più NESSUNO senza. "Come mai te sei sposato Peppiniello, a 80 anni,Salvatore?" "Ih, mi sono accorto che mi piaceva tanto!", "Ma sta più morto che vivo!" " E vabbé, al cuor non si comanda, e poi ha una buona pensione!" E tutte quelle vecchie sulle panchine..."Mi sposo Lucia, perché era bancaria e mi renderà, da morta, più di te, Luigi ,che facevi il mercante ambulante!"

Amori Vip

venerdì 13 luglio 2012

Non essere interessanti


Per meritare una canzone di De André, o sei ricco (com’era lui, ricchissimo di famiglia), e allora la canzone trasuderà disprezzo, pena o schifo o rabbia e malinconia, « fascisti, borghesi, ancora pochi mesi » (il concetto di pochi è soggettivo). Oppure sei sempre ricco, ma almeno sei malinconico e torturato, sul modello della Micòl dei Finzi Contini, o ancor meglio del fratello Alberto. E allora ci potrà uscire una canzone plumbea, decadente, viscontiniana, anche un po’ nichilista. Insomma, se sei ricco ci sono due versioni di canzone, quella che definiremmo per il « porco soddisfatto » oppure quella per il « ricco riflessivo ». Se non sei ricco, per meritare una canzone hai un’alternativa: devi essere interessante. Tipo un assassino, un travestito, un carcerato, una prostituta. E allora nella canzone ci sarà un’intelligente raffinatezza e complicità, ci saranno tocchi di poesia, momenti altissimi di riflessione, severi moniti sulla necessità di non giudicare gli altri, richiami anche all’iconografia cattolica, insomma, cose belle, cose grosse, importanti. Ecco.
Se non sei ricco e neppure interessante, allora hai un’ultima chance, ma è proprio l’ultima. Devi essere un disgraziato totale. Ma totale, non mezzo e mezzo : devi morir di fame ed essere sporchissimo. In  quest’ultimo caso allora sei uno dei cosiddetti « ultimi », e li’ in un certo senso è veramente il massimo. Li’ le canzoni fioccano, e si riempiono di frasi memorabili, e i dischi si vendono. E i titoli di giornale non mancheranno mai, perché il giornalista ci va facile facile : il prete che difende gli ultimi, il cantante che ha cantato gli ultimi, il poeta degli ultimi, il calciatore che si interessa agli ultimi.
Perché difendere gli ultimi significa essere forti, essere come Gesù Cristo o quasi, essere pazzeschi, veramente in gamba. Significa essere « contro », non rassegnarsi al conformismo imperante, tenere la barra dritta, non cedere, non tentennare, essere « oltre », poter guardare tutti gli altri dall’alto in basso, con una smorfia di schifo, ed essere invitati alle migliori feste.
Ma un operaio che si compra una Seicento non è un ultimo; c’ha la Seicento. E non è ricco perché ve lo fosse, mica si comprerebbe la Seicento, non vi sembra ? E non è interessante : come fai a essere interessante con una Seicento magari pure lucidata perbenino? E di solito non è un nemmeno un assassino, perché statisticamente gli assassini sono una minoranza. Sarà per via dell’effetto deterrente della legge, o dell’innata bontà dell’essere umano, vai a sapere ; secondo me è la prima che ho detto, ma non importa. Tornando al nostro non ricco, non interessante e non ultimo : chi si compra la Seicento non muore nemmeno di fame anzi, mangia cibi semplici ma con robusto appetito. E allora una canzone viene malissimo, si capisce. A meno di non essere un poeta un po’ matto, magari uno alla Jannacci. Ma questi sono casi fortunati, particolari.

Questo lo scrive Maurizio Puppo.
Concordo. Per i letterati e i cantautori, chi è povero ma non un disgraziato, non fa notizia.
Un buon motivo invece per scrivere SOLTANTO DI GENTE COMUNE. Io lo faccio.
Dal letame nascono mosche.E basta.

mercoledì 11 luglio 2012

amore...


Facebook e frivolezze


Sì, ha ragione Massimo Virginio Tosi ( un amico di facebook), ognuno protesta per piccolezze: la multa, l'aria condizionata, Minosse,il cane del vicino che gli fa pipì sullo zerbino e l'estate, aggiungo io, è luogo deputato di frivolezze: la home si riempie di spiagge, cime, tramonti, prati in fiore, bellezze in costume, bambini che sguazzano.Tra un accidenti a Monti e l'altro. E , giustamente, dice: "oggi ne sono morti altri 58, il solito gommone" e ci sembra una cosa normale, è pazzesco.Ciò mentre io parlavo di abbronzatura selvaggia in donne bionde (troppo finte) e stivaletti portati in spiaggia dall'irriverente non sense della gioventù.
E' che per sopravvivere gli occhi selezionano. Arrivi  a un punto nella vita in cui cerchi indizi di sopravvivenza e metti la morte da parte, ne hai troppa addosso. 
Così che vedi e annoti qualcosa che narri la pena di stare al mondo o la fatica per farlo.
La coppia, ad esempio, madre anziana, quasi calva, figlio disabile, andati al mare partendo e tornando da Alessandria in treno con tutto. Lei con il borsone ( teli da bagno, pranzo...) e lui stringendo con due braccia un ombrellone.Sì, si sono regalati il "loro" mare.Erano stanchi ma sembravano contenti.
L'anziana che percorrre, col bastunén,la passeggiata passo  a passo e lo fa con il sorriso. Mostra sì e no pochi lembi di pelle al sole e ha il cappello che le ombreggia il viso, ma è contenta come le ragazze che le sfilano accanto a falcate in calzoncini.  Mi dà il coraggio di accettare le ingiurie dell'età.Forse. E' la sua estate, è il suo progresso ( chissà, poter camminare...dopo mesi di immobilità o a chiedersi se sarebbe passato un altro inverno).
Il bambino che vende cianfrusaglie e ha i piedi neri e lo sguardo scuro. Non ha fatto scelte, in vita sua, ma a te non serve nulla e hai i soldi contati nel borsellino.
Il mendicante che chiede e a ognuno leggi un disagio diverso: chi non sopporta, chi ci soffre, chi non può, chi s'incazza.
In realtà siamo arrivati tutti con il gommone, Massimo.
E nessuno è detto che ce la faccia.
Anni fa (tanti!) conobbi un ragazzo biondo - al mare - nei dintorni di Alassio, che prendeva la rincorsa con la sia Diane Buggy e andava a sbattere contro un muro. Era fatto di birra. Il rampollo di una famiglia bene molto nota. Invitò tutti i ragazzi della piazza, la sera dopo, nella sua villa in collina ( ma si vedeva il mare). Era una cosa megagalattica, tutta piastrellata di blu, con mobili in gran parte bianchi. Lasciò fare tutto: saccheggiare la dispensa, usare le camere da letto da pomicioni esperti e no. Ci provava, dal canto suo, con tutte. Una volta da soli, gli chiesi "perché?". Mi rispose che suo padre era in giro per l'Europa per lavoro e la madre negli Stati Uniti in vacanza con l'ultimo amante e lui avrebbe potuto trascorrere le vacanze come avesse voluto ma s'annoiava e si sentiva un pezzo di merda... Gli mancava un dente davanti e non aveva voglia di andare dal dentista. Mostrava quella finestra in bocca, come la sua sofferenza. Ho tutto, ma quel che vorrei non c'è. Aveva 18 anni e voglia di stare al mondo, zero.Sarebbe troppo facile dire che ha avuto tutto ed era uno sciocco. Forse ognuno ha avuto tutto il minimo che serve e poi lo ha speso come è stato capace e come la sua realtà gli ha imposto.E' che se assorbiamo tutto il dolore del mondo ( e io ci sarei portata..) ci vengono le stimmate come Padre Pio.E l'indignazione? Ci rende fragili ancor di più che annegare la fatica di vivere nella granita o affondare la faccia e la paura nell'anguria.
E chiedersi, in molti, come fare ad arrivare alla fine del mese.
Non c'è gioia senza la percezione del dolore individuale. Della società m'importa sempre meno.La salvi chi riesce, è già tanto se riesco a stringere le mani a una persona per volta.



sabato 7 luglio 2012

Bella

Al cinema, Virginia Wolf :

fu interpretata da Nicole Kidman:

Ora, guardiamo i due volti. La Kidman, che pure è una delle più graziose attrici di questi ultimi decenni, ha una fronte a cui mancano due bulloni ai lati e il naso a tacco.Belli i capelli, ma le sopracciglia tradiscono che bionda non è.Eppure si disse che, per interpretare la Wolf,  "l'avevano imbruttita". Ma guardiamo la Wolf:
Linea del naso purissima ( vorrei averlo io, perfetto così), belle labbra, viso affilato, senza trucco di sorta.
       La Kidman divenne così:

L'unica rinuncia alla sua beltà furono le lenti a contatto, per il resto la trovo finissima, di una bellezza delicata ed elegante.

Ora la Kidman, dallo stesso contesto cinematografico, che sta estendendo i suoi tentacoli ovunque, è diventata così:
Botox a soli 43 anni.
Allora, quale forza del male si è impadronita del gusto estetico in questi anni?

Non ho parole.

Oggi

venerdì 6 luglio 2012

Un mal di testa da Zeus 4

Smettila di cambiarti la faccia, Amedeo.
Non mi diverte.

E poi passi dall'una all'altra troppo velocemente.
Ora sei quello che ride con gli occhi e non ci si può che innamorare di uno che ti fa sorridere così, dai! D'altra parte ho invidiato la foto di chi, rovesciando la testa, rideva all'indietro, vicino a lui. Rideva, come a tornare ragazza e lui poi un braccio al collo gliel'ha messo, l'hai visto, ma gira gira ritorna. Tutto sommato è convinto, sai, della mia purezza, anche se in soldoni non può valutarla che tra le cose che né si comprano né si vendono.E allora fa: la vita mia son cazzi. E mi sa che lo son la vita di tutti, bello mio. Bello moro.

E tu Amedeo tuffi gli occhi nel carbone e all'improvviso sei un altro, la rosa che non colsi...ma quando è colta, il ciclo è concluso, andate in pace? Ci sono inizi che sono conclusioni, ma si sa, la gente è strana ed io m'accorgo delle cose quando sono già successe.
Poi basta una canzone e sono in un'arena estiva a coltivare un amore che a spremerlo ...soltanto lacrime, eppure si era così belli, così tersi, così capelluti.
"Non si muore per amore", cantano i Profeti.
Macché, la gente ci muore di continuo, ogni giorno, anche se all'apparenza sembra rincorrere il necessario e il superfluo. Il necessario per sopravvivere, il superfluo per vantarsi del proprio successo.
Ma l'amore, Amedeo, non è né necessario né superfluo.Si permette perciò di avere un posto tutto suo tra gli ideali, che non sono pane e neanche oro.
Si muore per il lutto.
Si muore per la perdita.
Si muore per l'insuccesso.
Si muore per malattia.
Si muo re di no stal gia.
Si muore davanti a una propria foto bellissima, di te giovanissima , in cui ti mancava il coraggio, ma quello, diceva Pirandello, se uno non ce l'ha non se lo può dare.
Quelle coraggiose lo prendono a mazzate e se lo portano a casa, trascinandolo per il...ciuffo.
Quelle come me, no.
Ma sì, dammi un buffetto, baciami, stupido.
Tu sì, che mi capisci.
Ma ora sei troppo biondo.



giovedì 5 luglio 2012

Un mal di testa da Zeus 3

Quando mi hai indicato il cane mi hai spedito indietro di un paio di decenni. E così ho scoperto che alla  mia creatura piace l'archeologia dei sentimenti, piace scovare l'origine dei comportamenti, riportarmi agli albori della solitudine, quasi una conquista, oltre un'inaudita sofferenza. Era la pace. Dopo il tumulto nessun rumore e un dolore monocorde, come può essere il dolore quando è uguale a se stesso per mancanza di novità.Allora puoi sentire i battiti del tuo cuore, il fracasso delle tue decisioni e saggiare l'incapacità gestionale della realtà, passando tuttavia per la saggezza. Quella tuttavia si perde, Amedeo. Si perde per amore.A un certo punto la saggezza non basta, porta in sé l'immobilismo stagnante della mancanza. L'Ego diventa ipertrofico e bulimico e infine si cede, dopo aver riordinato tutto ciò che si poteva, sublimato possibile e impossibile, deviato su affetti pallidi, coltivato amicizie dai lunghi filamenti giallastri. Alla fine tutto è troppo silenzioso.Non c'è più un granello di polvere. Tutto è sotto controllo, ci si sente padrone di un mondo ben conosciuto e si viene catalogate tra quelle che non ci pensano più.
Prima o poi però il corpo reclama.
La mente rimbalza come la pallina di un flipper tra un accenno e l'altro e prende il desiderio di costruire qualcosa.Così come si sono tappezzate ex novo le poltroncine.Ci si mette di buzzo buono a rifare il look ai sentimenti.Si pensa di aver diritto alla gioia , quasi immemori che non c'è amore precedente che non sia stato un incubo. Ne uccide più l'amore della spada.
Allora ho ripreso a sognare, profumare lenzuola, comprare ciò che aveva lo scopo di creare il nido che non era più soltanto l'antro della Regina e lievitava nel forno della voglia di ricreare il nucleo, diverso ma uguale, e che cosa non si fa per piacere, Amedeo, eccellere, farsi dire "brava", a letto come in cucina, in soggiorno come a spasso.E bella e brava e brava e bella e buono e giusto e comodo e bello.La lotta che ben conosci per essere la migliore e non avere mai la soddisfazione di sentirselo dire ed essere caduta nel circolo vizioso del non sentirsi mai brava abbastanza e nel contempo innamorarsi di sé, perché sì, ci si è superate. In generosità, in delicatezza, sopportazione, ma non è facendosi a pezzi che si ottiene approvazione.Si innesca invece un divertente, per gli altri, processo di autodistruzione. 
Autodistrazione.
Ma ci si prende gusto, si pensa che superare un'offesa sia vanificarla, invece no, si nutre di se stessa e non ha mai fine.
Non t'amerà mai chi si sente troppo amato. Cederà al bisogno di chiederti il cuore di tua madre per i suoi cani.
Che fai Amedeo, ridi?
Sai che narcisista come sono posso rendere tutto estetico.
In questo momento sono in Piazza Corvetto, è buio.Scintilla soltanto la luminosità del bar della Genova elegante che è poi molto provinciale invece, con le sue bignole grandi come qui fino agli Anni Settanta. C'è un camino spento, c'è un piacere acceso.
Siamo in due.
Nell'immagine successiva invece sono sola, in Via Veneto, servita da un cameriere in livrea. Fa caldissimo, lui schiatta fuori e rivive dentro il locale condizionato, ma io son lì ad osservare la metro in Piazza Barberini. Arriverà l'amica.
Punto di riferimento resta l'albergo. Gli alberghi sono corazze, quando sei privo del tuo guscio di tartaruga, il mio più precario che mai.
"Ma hai sentito, sciocca, che buono il profumo della torta salata con gli asparagi? Per te, può anche essere un profumo di casa... per te, più avvincente di un Dior sul corpo".
"Sì, lo so, ma i profumi di casa vanno a dare colore ai sentimenti, anche, coltivare futuro".
Ti metti le mani tra i capelli e mi dici:
"Il futuro sono io".
" Ma tu non esisti!", dico.
"Appunto". E hai il tuo sorriso migliore.



Ci si vede

Si è concluso il Concorso Caccia all'autore. Il mio racconto non ha vinto, ma ve lo propongo qui.


Ci si vede

Don Claudio in cuor suo ringraziava che la chiesa fosse un luogo fresco. Faceva un caldo di quelli appiccicosi, senza un filo di vento a rinfrescare e tutti aspettavano la sera, per respirare. In chiesa si stava meglio, ma l’abbigliamento che indossava, consono alla celebrazione di un funerale, lo faceva sudare, specie sul collo, attorno al quale passava due dita, nervosamente, ad allentare un po’ la morsa del dignitoso e rispettoso stato, inappuntabile e degno del morto.
L’ambiente era discretamente affollato, Franco Pizzini era un uomo conosciuto e stimato.
In prima fila c’erano la moglie in nero e con il filo di perle scaramazze, le due figlie e il figlio, poi la sorella con il marito.
Dietro, tutti gli altri.
Parenti e amici.
Colleghi.
Conoscenti.
Curiosi.
Tutti avevano un atteggiamento di circostanza, qualcuno era visibilmente commosso, erano presenti anche persone alle quali era scesa qualche lacrima durante l’ingresso del feretro in chiesa e ascoltando le parole di commiato di Don Claudio, misurate e mai fuori luogo. Sagge.
La gente era coperta più del solito estivo, non si va a un funerale in abiti vistosamente corti o sbracciati o senza uno straccio di giacca, se uomini. Ciò appesantiva la situazione ed erano nervosi anche gli addetti alle pompe funebri, in nero e incravattati.
Molte donne erano con il capo coperto, cosa poco sopportabile, con la calura, nonostante la frescura della chiesa.
-        Nostro fratello Franco ci ha preceduti nella Casa del Signore. Là è stato accolto come un figlio che torna, dopo aver vissuto e lottato in questo fragile mondo come chi abbia a cuore la giustizia e di Franco ricorderemo come abbia svolto con impegno civile e calda e amorevole umanità la sua professione d’avvocato. Ciò gli ha reso la stima imperitura degli uomini, l’amore e il sostegno della famiglia, l’onore nel Regno dei Cieli.
Dalla prima fila giunge un sospirone, era la vedova.
-        Il nostro caro Franco ora siede tra le anime chiare, tra gli uomini in pace con se stessi e il creato, tra i benefattori della nostra città, perché ha dato a larghe mani molto di ciò che ha ricevuto. Sempre vicino ai poveri, agli oppressi, ai sofferenti, magnanimo con i peccatori. Buono. Ecco ciò che potremmo, in sintesi, dire di Franco, l’avvocato Pizzini, ci lascia un uomo buono e un uomo profondamente buono è un uomo grande. Un uomo che ha meritato l’amore della famiglia, la riconoscenza della città, il rispetto degli avversari.
Dalla seconda fila ecco levarsi un brusio.
Consensi più che altro.
Il caldo è opprimente, Don Claudio cerca di scacciare dalla mente l’immagine di una bibita gasata e rinfrescante, anche se è un peccatuccio passabile. La platea scalpita, bisogna tirar le fila, giungere a una conclusione.
La bara è coperta di freschissimi fiori in svariate tonalità di rosso. Rosso vivo, purpureo, violaceo, spento, aranciato, cupo.
Da quel rosso pare levarsi un motivetto.
Imbarazzante, è proprio una canzoncina.

Whether you're a brother 
Or whether you're a mother, 
You're stayin' alive stayin' alive. 
Feel the city breakin' 
And everybody shakin' 
And we're stayin' alive stayin' alive. 
Ah, ha, ha, ha, 
Stayin' alive 
Stayin' alive 
Ah, ha, ha, ha, 
Stayin' alive.

Don Claudio non realizza nell’immediatezza. Cala un silenzio di tomba.
I presenti si guardano in viso l’un con l’altro.
Nel silenzio inusuale, anche se in chiesa, si risente:

Whether you're a brother 
Or whether you're a mother, 
You're stayin' alive stayin' alive. 
Feel the city breakin' 
And everybody shakin' 
And we're stayin' alive stayin' alive. 
Ah, ha, ha, ha, 
Stayin' alive 
Stayin' alive 
Ah, ha, ha, ha, 
Stayin' alive.

Proviene dalla bara, non c’è dubbio, ma come può esserci un cellulare nella bara?
La vedova è allibita, fruga in borsa, il telefonino del marito, il suo Nokia nero e indistruttibile, c’è.

A ognuno viene il dubbio di aver perso il cellulare nell’attimo del saluto alla salma.
La figlia cerca il suo Iphon in borsetta, non lo trova, panico.
Don Claudio si tocca la tasca dei pantaloni che indossa sotto i paramenti, il suo c’è.
Le prime due file frugano tutte. Chi nella pochette, chi nella sacca, chi nella borsetta, chi in tasca. Si sente un rumore che pare un cane che raspa, un gatto che insabbia nella lettiera.
La figlia trova infine il suo bellissimo telefonino, con un mondo di numeri. Tutti coloro i quali stanano il cellulare, fanno larghi sorrisi. Si abbracciano, sospirano.
Dal feretro si levano ancora suoni, la suoneria o anche un altro suono breve e ripetuto,una sorta di… uariuariuari-à.
Una volta.
Due volte.
Tre volte.
Si fa avanti una domestica di colore.
Dice, sommessamente:
-        Non ho tolto di tasca all’avvocato l’altro cellulare, il telefonino che mi diceva sempre di levare di tasca se se ne fosse scordato, così che l’avevo tolto e infilato di fretta nel vestito blu, nell’armadio guardaroba.

E nel vestito blu, Pizzini, è sepolto.

Per volere della vedova, la bara si riapre.

Sul cellulare, 3 sms:

“perché non rispondi al telefono, prosciuttino?”
“ci si vede su Skype? Ho gli slippini con i cuoricini”
“cattivo, non rispondi…da oggi per me sei morto”.


Verdi Requiem Dies Irae

mercoledì 4 luglio 2012

Distributori


EMERSON LAKE & PALMER - Promenade & The Gnome

Un mal di testa da Zeus - 2


Ci sono fasi in cui la creatura osserva il Creatore. Così tu per me, Amedeo. Non hai trovato nulla da ridire sulla mia pigrizia.Ignavia. E  mica va bene. Avevi lo scopo preciso di guidarmi, rigenerarmi, regalarmi la riscoperta del quotidiano, invece hai assistito imperturbabile allo sfascio, sfogliando con me tutte le foto. Sì, sono suggestive, pittoresche. Vera vacanza, suvvia, si chiama così quando i pensieri restano bene impacchettati a casa. Ma che cos'è una casa? Un luogo dell'affetto rimescolato e servito caldo oppure almeno tiepido e non la mensola su cui riporre tutti i ricordi. Una mensola sopra alla finestra dalla quale si assiste alla vita degli altri, per la quale il disinteresse è totale,così che non ti ho dato la punta del cornetto e per un attimo sei tornato quello con l'occhio pittato e la bombetta. Cattivo, cattivo.
Patteggiando ti chiedo: mi faresti un caffè?Un vero caffè laborioso, svitando con cura una caffettiera ben lavata,prendendo il barattolo del decaffeinato, dosandolo con il cucchiaino in gesti misurati e sapienti. Riavvitando, ponendo la macchinetta sul fornello e sapendo aspettare con uno scambio di sguardi molto eloquenti. Sei nato per aspettare con me. Che cosa? L'attesa di per sé. Quella spesa in procinto di qualcosa o in pausa di qualcos'altro.Per viaggiare con me, per misurare il tempo dalla stanchezza al sonno e dal sonno al sogno.Per stropicciarmi gli occhi al risveglio, per rinfrescare la memoria.
Dove lo prendiamo poi il caffè?
Insieme dal balcone di Giulietta, a Verona. Appoggiati ai gomiti, con la tazzina in mano, giocherellando con le punte dei piedi e guardando di sotto e dicendo:
"Che c'è di strano se noi qui si beve il caffè?" E sorridere, guardarci, baciarci per esibizionismo.
Lasciar cadere una tazzina che s'infrange esattamente tra Giulietta e una ragazza che non vede l'ora di stringerla a sé, ché siamo tutti alla ricerca di simboli d'amore.L'abbraccio alla statua della morente fanciulla, come disseminare segni di sé sulla Via dell'Amore, tra Rio Maggiore e Manarola, che ben promette perché è mare e roccia, eterni e tosti.Ma degli amori sono stati scritti vangeli su vangeli, quasi tutti apocrifi e alcuni ipocriti.
Potremmo invece sorseggiare il caffè da una terrazza di Villa Borghese, ammirando rosseggiare la cupola di San Pietro che Roma resta Stato del Vaticano, in fondo. Stato profano di un confine religioso. L'Italia è rimasta a Torino.Immobile come il busto di Cavour sullo scalone di Palazzo Madama e tutt'intorno, da decenni e decenni, giorni da diluvio universale.I bersaglieri, dopo Porta Pia, son restati a godersi er ponentino.Roma non fa' la stupida 'sta sera.Sembra fatta per le storie d'amore, come tutto ciò che è bello agli occhi e con il lavoro non ha nulla a che fare.
Mi solleciti il caffè.
Sì, è opportuno. Non si parla di ciò che poi non si fa.
"Sgambetta", mi dici.
Vale per tutto, non può predisporsi così al fallimento ciò che è stato curato per decenni con la perseveranza di chi pensava che sarebbe tornata ad essere famiglia, la casa.
"Ma lo è", dici tu e me ne mostri i parametri pelosi.E hai ragione.Così ragione che quasi quasi ti offro la sigaretta, dopo il caffè e anche l'ammazza caffè.
Ma non sperare che poi ti ubbidisca, abituati ai bisticci amorosi.
Sogghigni, già è un bene che s'arrivi a tanto, piuttosto che affidarsi al disordine totale. 
"Non cucinerò per te", ti dico.
Annuisci.Sai che sto parlando con me.E sei pagato per farmi cambiare idea dalla moneta dell'autismo.