domenica 9 dicembre 2012

Storie a pezzi in omaggio: "Non si può morire dentro".


La presentazione alessandrina è andata benissimo, anche se è durata due ore  e la cena tre e mezzo, perché le portate piemontesi non scherzano: salame crudo e cotto, robiola di Roccaverano, tortino caldo di topinambour e acciughe, purea di carote e involtino di carne e verza, agnolotti al brasato, brasato con la polenta, torta di nocciole e zabaione, bunet cioccolato e amaretto, caffè.

In omaggio : il mio racconto.
Profondamente ironico.


Non si può morire dentro.


“Non si può morire dentro e restando morirei”, cantava Gianni Bella.

Sono restata e sono morta. Come ho fatto, non so.

Me ne sono accorta quasi per caso. Stai in apnea un bel po’, per gioco, con tua figlia, ma non giunge alcun sintomo di soffocamento a farti spalancare le fauci, tirar su con il naso a bocca aperta, aprire di corsa la finestra, tossire cianotica e urlare: “Aiuto, muoio!”
Non successe. Decisi di non respirare a lungo e poi cominciai a far roteare gli occhi. Di qua, di là, su, giù. Nulla. Il colorito restava roseo, leggermente ambrato da un tocco di fard e non s’impadroniva di me alcuna fame d’aria. Una cosa era sicura, i bronchi e i polmoni erano morti. Il cuore tuttavia batteva con un ritmo regolare. Troppo regolare. Aveva un andamento quasi musicale, rullava in petto come un tamburo ma con una tonalità lieve, bassa, come ad una perenne esibizione nel suo momento clou. Se fossi stata coraggiosa, mi sarei ficcata un dito in un occhio, mi sarei punta un polpastrello, avrei ingoiato del veleno, per verificare ulteriormente se fossi viva e reattiva. Mi limitai a ingurgitare sale, tanto sale.
“Vomiterò, lo so”, mi dissi, bere acqua salata è consigliato dal centro antiveleni per indurre al vomito ed eliminare così gli elementi tossici dallo stomaco, prima che raggiungano tutto l’organismo.
Invece non vomitai affatto. Avrei potuto mangiare sale a manciate, al massimo avrei avvertito un sapore non propriamente gradevole. Probabilmente, inoltre, era tardi. Se già non respiravo più, l’avvelenamento era un dato certo. Tuttavia così, senza un sintomo, una reazione abnorme ed evidente…Si schiuma dalla bocca, dicono! O no?
Rimasi impassibile, tranquilla.
Non c’era dubbio, ero morta, ma non me n’ero accorta e con me nessun altro.
Chissà da quanto tempo, poi! Anche il desiderio di fuga, vacanza, di “altrove”, era svanito.
In molti si erano limitati a dirmi che il mio aspetto non era mai stato così attraente. Non mi avevano mai vista così snella, soda, abbronzata, da qualche anno in qua. Graziosa e sempre in tiro.
Ringiovanita.
Mi guardai per bene allo specchio: non c’era ombra di rughe, se non delle prime, appena accennate, sulla fronte. Il collo era ben disteso, la sua pelle per nulla vizza. I capelli erano lucidi e vaporosi.
La bocca era più turgida del solito, pur senza aver perduto la sua linea naturale.
Insomma: ero morta, mica di plastica!
Non avevo perso un solo giorno di lavoro, in casa tutto era perfetto, la vita sociale e affettiva non era mutata. A ben pensarci, non avevo più litigato né con mia madre né con mia suocera. Avevo sopportato pazientemente che Martina e Diego si picchiassero o si strappassero di mano giochi e merende e gettassero le loro cose qui e là. Non avevo più scostato a letto Alberto, rifiutandolo, come se il mal di testa mi fosse passato totalmente. La cefalea che mi aveva portato in pellegrinaggio tra i medici specialisti della zona, era scomparsa.
Alberto.
Cercai di individuare anche in lui i segni della mia stessa vitalità artificiale.
Nessuno.
Alberto aveva perso ancora capelli, il ventre era più prominente, s’abbioccava regolarmente davanti alla televisione, non digeriva i peperoni, perdeva le staffe al volante, soffriva d’insonnia, si lamentava delle tasse. Tutto regolare.
Alberto era invecchiato, diventando più flaccido, impaziente, sonnolento, smemorato, malfunzionante.
Ciò indicava che era un individuo vivo, in perenne involuzione, come capita nell’esistenza. Dopo un periodo di evoluzione, inizia un lento e inesorabile declino, che a me era stato miracolosamente evitato. Troncato di netto.
D’accordo, ma in che modo? E da chi?
Che io mi ricordassi, non mi ero rivolta a nessun santone che s’occupasse della mia forma fisica e mentale. Non ero stata ricoverata in nessuna particolare clinica privata. Non avevo avuto contatti con maghi e fattucchiere.
La situazione aveva i suoi vantaggi. Non soffrivo. Di nulla e per nulla.
La questione però è che non gioivo neppure.
Fissai a lungo Martina, cercando di immaginarmela sofferente, in pericolo di vita, bisognosa di me. Mi era indifferente.
Guardai Diego e pensai ai suoi trofei vinti a nuoto. Ne ero fiera, una volta. Ne parlavo con chiunque me ne fornisse l’occasione per vantarmene.
Ora non me ne importava assolutamente niente.
Erano i miei bambini, avrei dato la vita per loro, e amavo Alberto.
Oddio.
Lo guardai bene.
Mi sembrava, a dire il vero, un ammasso bofonchiante sul canapè.
No, non lo amavo più.
Era maldestro e scortese. Brontolone. Raramente si offriva di aiutare in casa. Fisicamente non era più piacente da un bel pezzo, ma c’eravamo tanto amati, perciò stavamo insieme per amore, affetto, stima reciproca. I figli.
La questione è che l’affetto era sbiadito.
La stima volatilizzata.
Amore era dunque una parola grossa.
Definirlo gradevole, una menzogna.
I suoi figli? Rompiscatole senza speranza. Mi vergognavo di me stessa per un pensiero simile…
Eppure non ero una madre degenere. Ero invece molto presente, premurosa.
Quando, per Dio, era successo tutto quanto? Perdere la vita, l’amore, gli affetti, l’identità e conservare tuttavia quell’aspetto florido, l’efficienza quotidiana, il pensiero corretto che ti fa in ogni caso affrontare ogni situazione con lena e coraggio e risultati concreti?
Senza un attimo di respiro, per giunta, letteralmente?

Se non amava più né Alberto né i suoi figli, avrebbe dovuto avere un forte desiderio di fuga. Un rifiuto in petto di un’insoddisfazione devastante…
Sarebbe stata pervasa dalla voglia matta di fare le valigie e andarsene con un altro uomo, da sola, vicino o lontano ma altrove.
Guardò Alberto, Martina, Diego, tutti sul divano a penisola del soggiorno, ridere di gusto davanti alla tv. Alberto stravaccato e con una birra in mano, Martina con le scarpe sui cuscini, Diego con il cane sulle ginocchia e un pacchetto di roba unta tra le dita.
No, non aveva desiderio di abbandonarli. Ne aveva invece uno fortissimo e inspiegabile di preparare i popcorn con il microonde e spremere sei arance. Nel contempo preparare l’impasto per la torta e fondere il cioccolato fondente in un pentolino con il burro d’alpeggio. Talmente forte che si alzò dalla poltrona, camminando leggiadra sul tacco dodici e si trasferì in cucina, dimenticandosi del tutto di essere morta.

Esaminando la cosa dall’esterno, pareva essere la classica situazione della casalinga insoddisfatta, che tuttavia cerca di essere al meglio di se stessa, per mantenere invariata la realtà dei fatti. In fondo ha lavorato a lungo per crearsela. Marito, casa, figli. Tutto nella norma. Poi, arriva un giorno in cui ci si accorge della ripetitività dei gesti, della stanchezza nel perpetuare i sentimenti mantenendoli sempre vividi e ti senti morta dentro. Dalla nevrosi ad una sorta di somatizzazione violenta e un po’ psicotica, il passo è breve. In concreto: una casalinga disperata e per poco non scordi che casalinga non sei, lavori sei ore al giorno fuori casa! Giunta al focolare domestico, ti attendono poi gli straordinari. Resta la disperazione, sfuma totalmente il concetto di casalinga frustrata.
Esaminandola male, facendo ricorso ad un immaginario collettivo zeppo di luoghi comuni, la questione è che se Isabella fosse finita sotto ad un tram, si sarebbe rialzata, togliendosi la polvere dal vestito con pochi gesti e sarebbe corsa ad accompagnare Martina a danza e Diego a karate, poi sarebbe andata alla Coop a far la spesa, anche con una gamba squarciata, la testa fracassata e la milza in mano.
Sì, doveva essere veramente morta, morta sul serio, ma di una strana morte, che rende un individuo sì, un po’ freddino… ma sostanzialmente migliore e più bravo nell’adattamento sociale. Capace, instancabile. Una morte conveniente sotto molti aspetti, incluso il fatto di non essere sepolti, che è un bel vantaggio. La vita sociale non ne risulta interrotta e non ci sono spese funerarie. Nessuno che avverta qualcosa di stonato.
                                                                                                           
Non proprio nessuno…

Il cane le ringhiava. Pazzamente difendeva sia Martina che Diego dalla sua presenza.
Di Alberto gli importava meno, ma digrignava i denti e abbaiava ogni volta che Isabella si avvicinava ai ragazzi. Infine accettava il cibo, ma poi fuggiva dietro al divano e con la coda tra le zampe, come se fosse stato colpevole. Un giorno l’aveva morsa. Nessun dolore, ovvio… ma molta molta sorpresa e un po’ d’afflizione. Formale. Il cane di casa non può comportarsi così.

Capitò però che una sera Alberto e Isabella invitarono a cena Cinzia, Marco e i loro figli, Giulia e Sandro.
Isabella aveva preparato giusto una cenetta con i fiocchi, apparecchiato all’americana in soggiorno, servito un aperitivo in salotto. Era bella, nel suo vestito fasciatissimo di raso rosso e fresca di parrucchiere. Non così Cinzia, era tornata da poco dal lavoro, s’era data una sistemata, s’era cambiata in fretta e furia, aveva infilato nei capelli una pinza di metallo e velluto nero. S’era truccata in automobile, era evidente che l’occhio destro era contornato da più ombretto del sinistro.
Marco invece era naturalmente prestante. Un bel sorriso aperto. Alto. Snello. Riccioluto.
Nella mano destra aveva un semifreddo inscatolato e alla sinistra teneva per mano Giulia.
Posato il semifreddo sul tavolo dell’ingresso e lasciata la mano di Giulia, aveva stretto con entrambe le mani quelle di Isabella.
Che strana sensazione.
Sì, sarebbe fuggita con quell’uomo.
Con il migliore amico di suo marito.
Con il padre dei figli della sua compagna di banco di liceo.
In alternativa, avrebbe lasciato lì marito, figli e la cara Cinzia in soggiorno, a sbafarsi tortelli di pesce, orate al forno, sformatini di verdure e insalata nizzarda ed anche il trionfo di nocciole e gianduia, un dolce la cui preparazione le aveva insegnato sua suocera, per chiudersi in una camera d’albergo con quel Marco, appendendo fuori un bel cartello: NON DISTURBARE. Non farlo per almeno un paio di giorni, please.
Il bello è che Marco sembrava aspettarselo, volerlo, in attesa di un cenno d’intesa.
Isabella sorrise, si sentì dire da una voce malinconica che era sempre più bella, lasciò le mani che stringevano le sue con bramosia e corse in cucina a preparare il melone al porto e il gelato ai frutti di bosco.

“Mi creda, dottoressa, io per quell’uomo farei follie. Io mollerei tutto, mio marito, i miei figli, il mio alloggio in centro con gli infissi interni di noce e cristallo molato, la casa a Spotorno al mare…la carta di credito oro. Io per Marco sarei disposta a gettare nel cesso la mia vita !”
Così dicendo, Isabella piangeva forsennatamente dalla psicologa, poi si ricomponeva, pagava e tornava a casa. Ogni volta, più o meno da un anno o giù di lì. A volte invece telefonava a Marco e si vedevano al Motel Belvedere, curioso nome, non c’era nessun panorama da ammirare, tanto che qualcuno l’aveva soprannominato “un bel dì vedremo”, hai visto mai!
Si rotolavano un po’ nel letto, giusto il tempo di farsi venire un mal di testa ognuno a casa sua, nel talamo legittimo e poi si giuravano amore eterno, piangevano abbondantemente e si rivestivano guardando l’orologio. Capitava che a volte Isabella indossasse la maglia al contrario, che rompesse, nella furia di rientrare per tempo, il tacchetto di una scarpa e che le calze si smagliassero.
A casa, lo scappellotto a Martina volava quanto il ceffone a Diego, mentre il cane la faceva in casa e l’arrosto bruciava nel forno.
Alberto, alla sera, l’ammirava di spalle ronfare.

“ Eh, sì, Alberto, rassegnati, tua moglie ha davvero perso la testa. Completamente”.
La dottoressa Nardini era stata buona amica di Alberto Sarli, un tempo.
“ Se mi lascia sono distrutto, non mi resta che spararle e poi uccidermi. Chissà, forse ammazzare tutta la famiglia lasciando aperto il gas!”
Alberto era alla frutta.
“Be’, c’è un modo migliore. Mummificarla.”
 “Già, e poi tenerla immobile nell’ingresso vicino al portaombrelli?”
“ Ma no! Ora il metodo è diverso, si uccide, si svuota per bene delle interiora e poi si recitano un po’ di formule desunte dai papiri e torna presto in piedi, con l’ausilio di un apparato tecnologico interno, che riproduce la funzionalità naturale. Meglio di prima! Si programma come si desidera. Carina? Gentile? Sexy? Assertiva? E sia!L’unico difetto può essere la memoria residua, ma è poca cosa. Si affievolisce con il tempo. Magia, storia ed egittologia, sapore gotico ma anche scienza! Alberto, scienza e tecnologia!”
Alberto era titubante.
“Ho paura che non si risvegli più …”, disse mogio mogio.

Invece Isabella si era risvegliata in perfetta forma.
E aveva chiesto un paio di scarpe con il tacco a stiletto e cucinato i cannelloni ripieni.

Oramai la chirurgia coniugale fa miracoli!






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