La presentazione alessandrina è andata benissimo, anche se è durata due ore e la cena tre e mezzo, perché le portate piemontesi non scherzano: salame crudo e cotto, robiola di Roccaverano, tortino caldo di topinambour e acciughe, purea di carote e involtino di carne e verza, agnolotti al brasato, brasato con la polenta, torta di nocciole e zabaione, bunet cioccolato e amaretto, caffè.
In omaggio : il mio racconto.
Profondamente ironico.
Non si può morire dentro.
“Non si può morire dentro e
restando morirei”, cantava Gianni Bella.
Sono restata e sono morta. Come
ho fatto, non so.
Me ne sono accorta quasi per
caso. Stai in apnea un bel po’, per gioco, con tua figlia, ma non giunge alcun
sintomo di soffocamento a farti spalancare le fauci, tirar su con il naso a
bocca aperta, aprire di corsa la finestra, tossire cianotica e urlare: “Aiuto,
muoio!”
Non successe. Decisi di non
respirare a lungo e poi cominciai a far roteare gli occhi. Di qua, di là, su,
giù. Nulla. Il colorito restava roseo, leggermente ambrato da un tocco di fard
e non s’impadroniva di me alcuna fame d’aria. Una cosa era sicura, i bronchi e
i polmoni erano morti. Il cuore tuttavia batteva con un ritmo regolare. Troppo
regolare. Aveva un andamento quasi musicale, rullava in petto come un tamburo
ma con una tonalità lieve, bassa, come ad una perenne esibizione nel suo
momento clou. Se fossi stata coraggiosa, mi sarei ficcata un dito in un occhio,
mi sarei punta un polpastrello, avrei ingoiato del veleno, per verificare ulteriormente
se fossi viva e reattiva. Mi limitai a ingurgitare sale, tanto sale.
“Vomiterò, lo so”, mi dissi, bere
acqua salata è consigliato dal centro antiveleni per indurre al vomito ed eliminare
così gli elementi tossici dallo stomaco, prima che raggiungano tutto
l’organismo.
Invece non vomitai affatto. Avrei
potuto mangiare sale a manciate, al massimo avrei avvertito un sapore non
propriamente gradevole. Probabilmente, inoltre, era tardi. Se già non respiravo
più, l’avvelenamento era un dato certo. Tuttavia così, senza un sintomo, una
reazione abnorme ed evidente…Si schiuma dalla bocca, dicono! O no?
Rimasi impassibile, tranquilla.
Non c’era dubbio, ero morta, ma
non me n’ero accorta e con me nessun altro.
Chissà da quanto tempo, poi!
Anche il desiderio di fuga, vacanza, di “altrove”, era svanito.
In molti si erano limitati a
dirmi che il mio aspetto non era mai stato così attraente. Non mi avevano mai
vista così snella, soda, abbronzata, da qualche anno in qua. Graziosa e sempre
in tiro.
Ringiovanita.
Mi guardai per bene allo
specchio: non c’era ombra di rughe, se non delle prime, appena accennate, sulla
fronte. Il collo era ben disteso, la sua pelle per nulla vizza. I capelli erano
lucidi e vaporosi.
La bocca era più turgida del
solito, pur senza aver perduto la sua linea naturale.
Insomma: ero morta, mica di
plastica!
Non avevo perso un solo giorno di
lavoro, in casa tutto era perfetto, la vita sociale e affettiva non era mutata.
A ben pensarci, non avevo più litigato né con mia madre né con mia suocera.
Avevo sopportato pazientemente che Martina e Diego si picchiassero o si
strappassero di mano giochi e merende e gettassero le loro cose qui e là. Non
avevo più scostato a letto Alberto, rifiutandolo, come se il mal di testa mi
fosse passato totalmente. La cefalea che mi aveva portato in pellegrinaggio tra
i medici specialisti della zona, era scomparsa.
Alberto.
Cercai di individuare anche in
lui i segni della mia stessa vitalità artificiale.
Nessuno.
Alberto aveva perso ancora
capelli, il ventre era più prominente, s’abbioccava regolarmente davanti alla
televisione, non digeriva i peperoni, perdeva le staffe al volante, soffriva
d’insonnia, si lamentava delle tasse. Tutto regolare.
Alberto era invecchiato, diventando
più flaccido, impaziente, sonnolento, smemorato, malfunzionante.
Ciò indicava che era un individuo
vivo, in perenne involuzione, come capita nell’esistenza. Dopo un periodo di
evoluzione, inizia un lento e inesorabile declino, che a me era stato miracolosamente
evitato. Troncato di netto.
D’accordo, ma in che modo? E da
chi?
Che io mi ricordassi, non mi ero
rivolta a nessun santone che s’occupasse della mia forma fisica e mentale. Non
ero stata ricoverata in nessuna particolare clinica privata. Non avevo avuto
contatti con maghi e fattucchiere.
La situazione aveva i suoi
vantaggi. Non soffrivo. Di nulla e per nulla.
La questione però è che non
gioivo neppure.
Fissai a lungo Martina, cercando
di immaginarmela sofferente, in pericolo di vita, bisognosa di me. Mi era
indifferente.
Guardai Diego e pensai ai suoi
trofei vinti a nuoto. Ne ero fiera, una volta. Ne parlavo con chiunque me ne
fornisse l’occasione per vantarmene.
Ora non me ne importava assolutamente niente.
Erano i miei bambini, avrei dato la vita per loro, e amavo Alberto.
Erano i miei bambini, avrei dato la vita per loro, e amavo Alberto.
Oddio.
Lo guardai bene.
Mi sembrava, a dire il vero, un
ammasso bofonchiante sul canapè.
No, non lo amavo più.
Era maldestro e scortese.
Brontolone. Raramente si offriva di aiutare in casa. Fisicamente non era più piacente
da un bel pezzo, ma c’eravamo tanto amati, perciò stavamo insieme per amore,
affetto, stima reciproca. I figli.
La questione è che l’affetto era
sbiadito.
La stima volatilizzata.
Amore era dunque una parola
grossa.
Definirlo gradevole, una
menzogna.
I suoi figli? Rompiscatole senza
speranza. Mi vergognavo di me stessa per un pensiero simile…
Eppure non ero una madre
degenere. Ero invece molto presente, premurosa.
Quando, per Dio, era successo
tutto quanto? Perdere la vita, l’amore, gli affetti, l’identità e conservare
tuttavia quell’aspetto florido, l’efficienza quotidiana, il pensiero corretto
che ti fa in ogni caso affrontare ogni situazione con lena e coraggio e
risultati concreti?
Senza un attimo di respiro, per
giunta, letteralmente?
Se non amava più né Alberto né i
suoi figli, avrebbe dovuto avere un forte desiderio di fuga. Un rifiuto in
petto di un’insoddisfazione devastante…
Sarebbe stata pervasa dalla
voglia matta di fare le valigie e andarsene con un altro uomo, da sola, vicino
o lontano ma altrove.
Guardò Alberto, Martina, Diego,
tutti sul divano a penisola del soggiorno, ridere di gusto davanti alla tv.
Alberto stravaccato e con una birra in mano, Martina con le scarpe sui cuscini,
Diego con il cane sulle ginocchia e un pacchetto di roba unta tra le dita.
No, non aveva desiderio di
abbandonarli. Ne aveva invece uno fortissimo e inspiegabile di preparare i
popcorn con il microonde e spremere sei arance. Nel contempo preparare
l’impasto per la torta e fondere il cioccolato fondente in un pentolino con il
burro d’alpeggio. Talmente forte che si alzò dalla poltrona, camminando
leggiadra sul tacco dodici e si trasferì in cucina, dimenticandosi del tutto di
essere morta.
Esaminando la cosa dall’esterno,
pareva essere la classica situazione della casalinga insoddisfatta, che
tuttavia cerca di essere al meglio di se stessa, per mantenere invariata la
realtà dei fatti. In fondo ha lavorato a lungo per crearsela. Marito, casa,
figli. Tutto nella norma. Poi, arriva un giorno in cui ci si accorge della
ripetitività dei gesti, della stanchezza nel perpetuare i sentimenti
mantenendoli sempre vividi e ti senti morta dentro. Dalla nevrosi ad una sorta
di somatizzazione violenta e un po’ psicotica, il passo è breve. In concreto: una
casalinga disperata e per poco non scordi che casalinga non sei, lavori sei ore
al giorno fuori casa! Giunta al focolare domestico, ti attendono poi gli
straordinari. Resta la disperazione, sfuma totalmente il concetto di casalinga
frustrata.
Esaminandola male, facendo
ricorso ad un immaginario collettivo zeppo di luoghi comuni, la questione è che
se Isabella fosse finita sotto ad un tram, si sarebbe rialzata, togliendosi la
polvere dal vestito con pochi gesti e sarebbe corsa ad accompagnare Martina a
danza e Diego a karate, poi sarebbe andata alla Coop a far la spesa, anche con
una gamba squarciata, la testa fracassata e la milza in mano.
Sì, doveva essere veramente
morta, morta sul serio, ma di una strana morte, che rende un individuo sì, un
po’ freddino… ma sostanzialmente migliore e più bravo nell’adattamento sociale.
Capace, instancabile. Una morte conveniente sotto molti aspetti, incluso il
fatto di non essere sepolti, che è un bel vantaggio. La vita sociale non ne
risulta interrotta e non ci sono spese funerarie. Nessuno che avverta qualcosa
di stonato.
Non proprio nessuno…
Il cane le ringhiava. Pazzamente difendeva sia Martina che Diego dalla sua presenza.
Di Alberto gli importava meno, ma
digrignava i denti e abbaiava ogni volta che Isabella si avvicinava ai ragazzi.
Infine accettava il cibo, ma poi fuggiva dietro al divano e con la coda tra le
zampe, come se fosse stato colpevole. Un giorno l’aveva morsa. Nessun dolore,
ovvio… ma molta molta sorpresa e un po’ d’afflizione. Formale. Il cane di casa
non può comportarsi così.
Capitò però che una sera Alberto
e Isabella invitarono a cena Cinzia, Marco e i loro figli, Giulia e Sandro.
Isabella aveva preparato giusto
una cenetta con i fiocchi, apparecchiato all’americana in soggiorno, servito un
aperitivo in salotto. Era bella, nel suo vestito fasciatissimo di raso rosso e
fresca di parrucchiere. Non così Cinzia, era tornata da poco dal lavoro, s’era
data una sistemata, s’era cambiata in fretta e furia, aveva infilato nei
capelli una pinza di metallo e velluto nero. S’era truccata in automobile, era
evidente che l’occhio destro era contornato da più ombretto del sinistro.
Marco invece era naturalmente
prestante. Un bel sorriso aperto. Alto. Snello. Riccioluto.
Nella mano destra aveva un
semifreddo inscatolato e alla sinistra teneva per mano Giulia.
Posato il semifreddo sul tavolo
dell’ingresso e lasciata la mano di Giulia, aveva stretto con entrambe le mani
quelle di Isabella.
Che strana sensazione.
Sì, sarebbe fuggita con
quell’uomo.
Con il migliore amico di suo
marito.
Con il padre dei figli della sua
compagna di banco di liceo.
In alternativa, avrebbe lasciato
lì marito, figli e la cara Cinzia in soggiorno, a sbafarsi tortelli di pesce,
orate al forno, sformatini di verdure e insalata nizzarda ed anche il trionfo
di nocciole e gianduia, un dolce la cui preparazione le aveva insegnato sua
suocera, per chiudersi in una camera d’albergo con quel Marco, appendendo fuori
un bel cartello: NON DISTURBARE. Non farlo per almeno un paio di giorni,
please.
Il bello è che Marco sembrava
aspettarselo, volerlo, in attesa di un cenno d’intesa.
Isabella sorrise, si sentì dire
da una voce malinconica che era sempre più bella, lasciò le mani che
stringevano le sue con bramosia e corse in cucina a preparare il melone al
porto e il gelato ai frutti di bosco.
“Mi creda, dottoressa, io per
quell’uomo farei follie. Io mollerei tutto, mio marito, i miei figli, il mio
alloggio in centro con gli infissi interni di noce e cristallo molato, la casa
a Spotorno al mare…la carta di credito oro. Io per Marco sarei disposta a
gettare nel cesso la mia vita !”
Così dicendo, Isabella piangeva forsennatamente
dalla psicologa, poi si ricomponeva, pagava e tornava a casa. Ogni volta, più o
meno da un anno o giù di lì. A volte invece telefonava a Marco e si vedevano al
Motel Belvedere, curioso nome, non c’era nessun panorama da ammirare, tanto che
qualcuno l’aveva soprannominato “un bel dì vedremo”, hai visto mai!
Si rotolavano un po’ nel letto,
giusto il tempo di farsi venire un mal di testa ognuno a casa sua, nel talamo
legittimo e poi si giuravano amore eterno, piangevano abbondantemente e si
rivestivano guardando l’orologio. Capitava che a volte Isabella indossasse la
maglia al contrario, che rompesse, nella furia di rientrare per tempo, il
tacchetto di una scarpa e che le calze si smagliassero.
A casa, lo scappellotto a Martina
volava quanto il ceffone a Diego, mentre il cane la faceva in casa e l’arrosto
bruciava nel forno.
Alberto, alla sera, l’ammirava di
spalle ronfare.
“ Eh, sì, Alberto, rassegnati,
tua moglie ha davvero perso la testa. Completamente”.
La dottoressa Nardini era stata
buona amica di Alberto Sarli, un tempo.
“ Se mi lascia sono distrutto,
non mi resta che spararle e poi uccidermi. Chissà, forse ammazzare tutta la
famiglia lasciando aperto il gas!”
Alberto era alla frutta.
“Be’, c’è un modo migliore.
Mummificarla.”
“Già, e poi tenerla immobile nell’ingresso
vicino al portaombrelli?”
“ Ma no! Ora il metodo è diverso,
si uccide, si svuota per bene delle interiora e poi si recitano un po’ di
formule desunte dai papiri e torna presto in piedi, con l’ausilio di un
apparato tecnologico interno, che riproduce la funzionalità naturale. Meglio di
prima! Si programma come si desidera. Carina? Gentile? Sexy? Assertiva? E sia!L’unico
difetto può essere la memoria residua, ma è poca cosa. Si affievolisce con il
tempo. Magia, storia ed egittologia, sapore gotico ma anche scienza! Alberto,
scienza e tecnologia!”
Alberto era titubante.
“Ho paura che non si risvegli più
…”, disse mogio mogio.
Invece Isabella si era
risvegliata in perfetta forma.
E aveva chiesto un paio di scarpe
con il tacco a stiletto e cucinato i cannelloni ripieni.
Oramai la chirurgia coniugale fa
miracoli!
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