Caro, estinguiti.
Tutti i giorni al cimitero.
In fila tra le vedove al
botteghino dei fiori, un piccolo chiostro in muratura, con una vetrata posta a
semicerchio dall’aspetto vagamente liberty. Chi per le rose, chi per le dalie,
ai Santi i crisantemi…Qualcuna persa dietro rami di orchidee pallide.
Ogni mese tuttavia se ne perdeva qualcuna
per strada. Alcune vedove diradavano le visite, perché il lutto si vive assai
bene anche a casa, tra le mura domestiche. Altre morivano, a loro volta,
anziane. Alcune si risposavano, magari un vedovo, a forza d’incontrarsi nei
paraggi delle tombe.Mutava il parco vedove. Se ne aggiungevano altre, pallide e
smagrite o di quell’obesità cattiva, grigiastra, fatta di cibo consolatore.
Maria Eugenia resisteva
imperterrita a visitare il luogo di sepoltura dell’unico grande amore della sua
vita, incontrato dopo alcune vicissitudini sentimentali. C’è tuttavia un Dio
dei cuori infranti, li avvicina, li mette in comunione, fa sposare il
dispiacere alla compagnia e questa alla rinascita.
Maria Eugenia e Giacomo erano
insieme rifioriti, raccolti i pezzi delle illusioni precedenti e gettati alle spalle
come coriandoli o il soldino che si butta a Trevi per tornarci. La differenza è
che nessuno dei due voleva tornare alla disperazione precedente. Guardavano bene
avanti e nella stessa direzione, tenendo cuore e sensi al caldo l’una dell’altro.
Quando si dice un incontro indovinato.
La morte tuttavia sta in agguato,
carpisce i disattenti e troppa birra e colesterolo a pacchi portarono Giacomo
nell’aldilà, lasciando Maria Eugenia all’al di qua.
Disperazione integrale. Voglia di
morire.
Chi muore giace, chi vive si dà
pace, si dice. Bene, non è così, pace per lei su questa Terra non ce n’era.
Giorno e notte un magma rovente di sofferenza.
Dialoghi con la sua lapide, con
Dio e con se stessa.
“Mio Dio perché non hai preso anche
me?”
“Buon Dio perché me l’hai fatto incontrare,
per poi togliermelo e soffrire?”
“Dio mio ridammelo, anche soltanto
un’ora!”
“ Che cosa non farei per riaverlo
vicino a me!”
Così ogni giorno, con qualsiasi tempo,
nell’andirivieni al cimitero.
Dio è misericordioso. Ascolta chi
soffre.
Maria Eugenia stava guardando una
fiction alla tv, di malavoglia, giusto aspettando l’ora di andare a letto, che
sentì suonare il citofono.
“Chi è?”
“Io”.
“ Non faccia lo sciocco. Soltanto
una persona al mondo potrebbe rispondermi così e quella persona non c’è più”.
“ Tesoro mio, sono Giacomo.
Credimi, sono proprio io. Dio ti ha esaudita.”
La sua voce! LA SUA VOCE! Calda,
pastosa, sempre quella. Dolce, rassicurante, maschia. Era lui, era tornato.
Corse ad aprire la porta, sarebbe
arrivato in ascensore.
Aprì la porta restando sulla
soglia.
Giacomo uscì dalla cabina. Sì,
era lui. Esattamente lui, nello stesso abito blu del matrimonio macchiato color
pus rappreso. Non odorava neppure più di marcio, semmai di stantio come la
carne secca. Non entrava in casa tuttavia. Era basita. Del volto, soltanto più
o meno la metà. Il resto accartocciato, mangiato, consumato dalla lebbra del
tempo e della decomposizione. Vomitò.
“ Non far così, Eugenia. Sono pur
sempre io. Ascolta la mia voce. Abbracciami”.
No, abbracciarlo, no. Giacomo
aveva capito, indietreggiando tristemente.
“Entra”, disse lei riprendendosi
e mostrando infine la sua cortesia.
“Un attimo, recupero il dito che
è rimasto incastrato nel pulsante”.
Aveva perso un dito.
Non solo, camminando gli si era
staccato un piede. Aveva un solo padiglione auricolare.
L’ aspetto era rabberciato ed incompiuto e i
denti sembravano enormi, nella mandibola nuda.
Giacomo raccattò il dito ed entrò
in casa. Corse ( si fa per dire), verso la sua poltrona e si piazzò.
“Ah, come si sta bene”.
Sulla poltrona si sparsero in un
attimo strane e repellenti bestioline nere e pelose, che lui guardò quasi con
affetto e lei svelta risucchiò nel bidoncino aspirante.
“Vedo che bevi ancora il porto”,
disse lui indicando la bottiglia che prese tra le mani, ma non seppe trattenere
e quella andò in frantumi, sul cotto del salotto.
“ Quanto pensi di restare?”,
disse lei
“Be’, per sempre…”, rispose lui.
“ Ma sei uno zombie!” disse lei
molto irritata.
“ E che volevi che Dio ti
mandasse, un ventenne?”, ribatté lui un po’ seccato.
“ Io veramente pensavo ad un
fantasma!”, chiarì lei con impeto.
“ Certo, come no, Ghost, e si fa
insieme il vaso di ceramica!” Così dicendo si mise a ridere, a sghignazzare
talmente che la lingua gli cadde sulle ginocchia.
“Che schifo!”, fece lei.
“Ecco, sempre la solita stronza,
figurati se non aveva qualcosa per cui lamentarsi. Piangeva, mi voleva, si
disperava, lei! E adesso che sono arrivato, sono rifiutato!”
“ Ma perdi i pezzi!”
Maria Eugenia era incazzata nera,
quel lurido cadavere gli stava imbrattando apposta il tappeto.
Se lo fosse ripreso, il buon Dio,
quell’elemento. Era il solito stronzo,faceva tutto per dispetto.
“Vattene, sei morto!”, fece lei
agitando un crocefisso.
“ Mi hai preso per un vampiro,
scema di guerra?”, disse Giacomo con una certa stizza.
Passò in quel momento il gatto,
com’è come non è, con un guizzo imprevedibile lui lo afferrò e lo mangiò.
Crudo,sbranandolo alla bell’e meglio.
“Bbono”, concluse, con un rutto.
A questo punto Eugenia,
rattristata ma anche rinvigorita per la perdita del micio, lo prese a scopate.
Gliene diede tante ma tante da ridurlo in brandelli e racchiuderlo in un sacco
dell’umido.
“ Ti porterò al parroco, saprà
lui come fare, con te”.
Lo mise così nel congelatore aspettando
che Don Angelo aprisse bottega.
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