Su facebook, sul quale è bene interagire poco, per non stabilire nefasti legami, così come in qualsiasi altro contesto non verificabile nell'immediatezza, ho scritto di essere vedova. E' uno stato che mi si addice. Il single è un po' un cane bisognoso di carezze, un randagio di poche pretese. Una vedova ha un caro estinto da visitare sotto qualche lastra di marmo o ce l'ha in casa sul comò. Il suo nome scolpito a sangue in fronte, sotto la frangia. Per l'occasione ho rispolverato un racconto di qualche anno fa: "La vedova Tirelli". Aveva avuto un certo successo, fu cestinato all'ultima fase, sul fil di lana, di una specie di concorso in cui una mediocre e noiosissima scrittrice, che scrive in coppia con una specie di autrice fantasma, aizzava gli uni contro gli altri i partecipanti ad una sorta di contest in cui già si sapeva chi avrebbe vinto.Qualche amico suo.
Lo ripropongo, era divertente.
LA VEDOVA TIRELLI
Certo che questo ha impiegato più tempo ad andarsene.
Non beveva, non fumava, Tirelli, era un orologio svizzero
nelle abitudini…eppure è lì, disteso in una bara foderata di
raso tinta champagne. Dritto all’altro mondo in Caraceni,con
la cravatta Marinella. Quasi bello, con il viso ben truccato
dagli esperti in cari estinti, sicuramente tra i migliori incontrati in decenni d’onorata carriera vedovile. Il morto è il settimo marito, italiano, come il primo, del resto, duecento
anni fa, anche se la storia fu molto diversa.
Allora ero una damina tutta svenevolezze, altri tempi! Il mio
sposo era un signorotto che mi aveva acquistato come una
vacca al mercato del bestiame e mio padre s’era liberato
volentieri di una ragazza fragile, una bambola incapace, vezzeggiata dalle fantesche, figlia unica di madre morta giovane e
sepolta, dove fiorivano gardenie.
A quei tempi andavo a sedermi sul prato accanto alla tomba
d’Ermengarda, infatti, chiedendomi come si potesse morir di 92
parto con delle gote così rosse e floride, come apparivano
nel gran ritratto sopra la mensola del camino, i cui occhi mi
seguivano con movimenti impercettibili da uno sguardo disattento. Io invece n’ero consapevole, sapevo che mia madre
aveva il controllo d’ogni mio passo reale e virtuale. Quando
rimasi incinta di mio marito, anziano ma sano e vorace di
bellezze, il medico fu onesto e chiaro: ha fianchi così stretti
che non sopravviverà al parto. Condannata, come mia madre. Eraldo restò cupo alcuni giorni, poi trovò distrazione
tra le braccia della mia cameriera personale, florida ragazza
di campagna, appetitosa,ben propensa a consolarlo di una
vedovanza annunciata. A me risultava gravoso muovermi,
pesante, di stanza in stanza, sotto lo sguardo vigile e triste di
mia madre, da cui avevo ereditato uguale fragilità. Al sesto
mese mio figlio nacque in anticipo, morto e nella stessa notte si spense Eraldo, che un colpo apoplettico portò via, mentre la serva urlava nuda, correndo per le scale. Le era morto
addosso in un rantolo d’orgasmo e dolore. Piansi tutte le
mie lacrime, ma il giorno in cui riuscii nuovamente a guardarmi allo specchio ero sola, ricca, e, cosa strana, con un
volto che non mostrava il minimo segno di stanchezza, come
se fosse immobile in un perenne ritratto di ventenne, nel
mentre mia madre riprendeva fiera a fissare il salone dalla
mensola del caminetto.
Passarono vent’anni ed io restavo tale e quale, passeggiando
fra tre tombe, nel mentre le gardenie fiorivano, sempre più
belle. Quando tentai di tagliarmi le vene, ne uscì un vago
profumo di gardenia. Ero immortale, come il ritratto che
imperioso dominava casa.
Cominciai a viaggiare e ripresi a vivere, per il mondo. Nuovi
Paesi, amori e vedovanze. Nuovi Paesi, stesse morti e grandi
patrimoni contribuirono a rendere cospicuo il mio.
Mi aggiusto la riga sulle calze, perché disegni il polpaccio.
Sistemo la gonna, affinché lo spacco centri la falcata decisa
sugli esili tacchi. Indosso il pullover accollato, grigio perla,
ché il lutto intero è poco elegante, indosso giacca e cappello
con veletta e fingo di baciare il caro estinto, che qui mi ha
riportato, sotto il mio campanile. Lo accompagnerò alla chiesa dove si celebrarono matrimoni e funerali antichi. Mi siederò nei banchi dove sedette mia madre, giovane sposa dalle
guance rosa. Sono stanca. La mia immortalità mi obbliga a
tenere il conto meticoloso di troppe morti, ed è inutile che
ci si dibatta per evitare la sua falce. Io vedo nell’occhio, che
scoppia di desiderio e salute, già la palpebra socchiusa sullo
sguardo vitreo ed ognuno mi pare già nient’altro che un
morto, quale dovrà essere fin dal giorno in cui mi mostra
tutta la sua caduca virilità. Sono ragioniera della morte.
- Contessa, che piacere rivederla!
E' Giussani, commercialista. Gli fa gola il mio patrimonio e
forse non è indifferente al bordo di pizzo dell’autoreggente
che occhieggia appena dallo spacco. Mi fissa, ma non in viso,
non credo sappia neppure di che colore io abbia gli occhi,
perché è certo che guarda le tette, è così da duecento anni
in qua. Nessuno ascolta le mie parole, se il petto respira con
movimento ritmico, alzando ed abbassando seta o lana. Lì
guardano, tutti. Affondano già la testa, con la mente, tra i
miei seni.
Tutti tranne Marcel.
Ah, Marcel, il giardiniere…
Invano pensai di intrecciare il tuo destino al mio, chiedendoti
di volgere uno sguardo fiducioso al gran ritratto di sì mirabile madre, per scongiurarla di abbracciare la mia figura e la
tua in un unico destino. Marcel, re di gardenie. Non mi amasti Marcel, invaghito dello stalliere. Piansi, accasciata sul tappeto, nel salone del camino e una carrozza ti travolse, lì sul
viale di casa.
- Giussani, mio caro!
Lo attraggo a me, perché senta il profumo di gardenia.
Lui aspira, serra gli occhi e li riapre senza fissarmi in volto e
sosta premendo un attimo sul petto di questa giovane vedova, così ricca, così sola, così bella.
- Contessa, conti su di me per ogni necessità pratica…
- Conterò, caro Giussani, terrò conto, anche di Lei.
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