domenica 8 aprile 2012

Da "Memorie di nebbia selvatica" ,di Rossana Massa un racconto sul collegio/orfanotrofio San Giuseppe, di Alessandria


San Giuseppe

E’ un Santo si sa, ma ad Alessandria era un Collegio. Non un convitto per giovani abbienti, ma un orfanotrofio, che poi tale del tutto non era: accoglieva ragazzi che avevano almeno un genitore, ma non in grado di badare da solo ai suoi figli, oppure che, per varie disgrazie, non potevano dalla famiglia essere accuditi, per cui la loro educazione era lasciata nella mani dei servizi locali. Gestiti in parte da religiosi. Ho foto di mio padre in divisa, con cappello rigido, in divisa e mantellina. Ne ho da solo, con suo padre e i suoi fratelli, in banda e in classe, con altri ragazzi come lui. Di uno restò amico tutta la vita. Quegli era realmente orfano, volle conoscere la madre da adulto e la volle vedere semplicemente per dirle “volevo vedere in faccia una donna che abbandona suo figlio”. Così, senza pietà. Si costruì una famiglia, accettò di buon grado la suocera anziana in casa e penso sia stato devoto al focolare domestico come pochi, perché se la famiglia per la maggioranza è una cosa scontata, per chi non l’ha avuta in tenera età è invece una conquista.
Negli Anni antecedenti la seconda guerra mondiale, in tempi di autarchia e di bugie politiche, molte famiglie indigenti facevano la fame, letteralmente e mio padre del Collegio ricordava in positivo soprattutto questo: scarpe buone e forti, abiti semplici ma non logori né indecorosi e cibo più che sufficiente, quando a molti bambini, nelle loro case, mancava. Certo mancavano invece le cure e l’affetto.
Un ricordo a due mi sconvolgeva. Mio padre ed il suo amico avevano visto morire un loro compagno di camerata. Ferito, non si sa se nelle attività sportive che abbondavano in epoca fascista o al lavoro o nel gioco, alle sue lamentele ( provava un intenso dolore ) venne deriso con queste parole: “ Ha la bua, ha la bibi! Piange perché ha la bibina!”.
Morì. Setticemia, credo.
Trascurato, deriso, letteralmente *mortificato*, reso morto, per dare la più macabra interpretazione del termine. Un messaggio forte e chiaro: se al momento non c’è al tuo fianco una madre disposta a strapparsi il cuore per te o la mano di un padre a difenderti…sei una nullità sulla faccia della Terra.
Per i ragazzi del Collegio, Artigianelli, era pronto un lavoro, previo apprendistato presso un artigiano della città, e fu così che mio padre fu avviato al mestiere di calzolaio. Lavoro che odiava, amava tutto ciò che era tecnico, meccanico e elettrico. Star seduto al deschetto a lavorar di fino con pelli e colla e cuoio non faceva per lui; non parliamo poi di tener tra le mani scarpe sformate dai piedi dei clienti! Non amava quel mestiere, ma in verità non fu tutto danno uscir dal Collegio, religioso, per frequentar le botteghe di calzolaio, perché ne incontrò uno anarchico che gli mise in mano e in testa libri di Malatesta, Cafiero, Bakunin. Idee di riscatto e libertà. Voglia di alzare la testa e ribellarsi ad un destino deciso da altre mani. Fu così che, infilatosi nelle cantine e impossessatosi di vecchi tubi inutilizzati… se li vendette un po’ alla volta per foraggiare il suo desiderio di diventare elettrotecnico.
Un giorno il Direttore, informato di negligenza e comportamento scorretto, gli intimò di aprire l’armadio. Ne cadde e rotolò una tal ferraglia che si convinse che quel ragazzo non poteva fare il calzolaio, ma l’elettricista.
A distanza di anni, tuttavia, quando mio nonno materno si vantava d’essere in grado di far le più belle e comode scarpe a mano della città, lo sfidò.
“Sono capace anch’io a far le scarpe!”
“ Provaci!”, fu il commento.
Fece un perfetto paio di sandali da uomo. L’unico della sua stroncata carriera di calzolaio.
“ L’è inteligent, l’è brav, is muroidi!”
« Muroidi » era il soprannome che si era guadagnato in famiglia e che significa, ma è comprensibile senza sforzi, « emorroidi », sia perché molto spesso musone e tendenzialmente solitario ( un altro soprannome era l’eremita), sia come omaggio al suo carattere un tantino…prepotente. E pensare che, se e quando voleva, poteva far ridere come un cabarettista. Caratteristica ereditata da suo padre, che mi ha tramandato. Sono una donna ironica, che disgrazia! So essere anche sarcastica, nella migliore tradizione mandrogna, ma per una donna è una condanna da nascondere. Agli uomini non piace una donna che “fa le battute” e ancor meno piace alle altre donne che, quando ridono, non me ne vogliano per quest’ondata misogina, è o perché stanno sparlando di chi non c’è o è per una cretinata che non sta né in cielo, né in terra. Noi donne siamo in realtà permalosissime e letterali fino alla banalità. Concrete e piccine.
Di tanto in tanto io sforo e vedo il lato grottesco della vita, che nasce in forma di pianto e a volte trasformo in tracce di riso, ma chi mi conosce bene sa che la mia tristezza è talmente profonda che non esiste gioia in grado di colmarla. Non ho inventato niente, da sempre si dice “ si ride per non piangere”, a cui aggiungerei “ si vive per non morir”.
Dal Collegio mio padre ebbe in dono l’interesse e l’amore per la musica. Imparò a suonare la tromba e gli strumenti a fiato furono per decenni i suoi migliori compagni per il tempo libero.
Ricordo la banda degli Alpini, la fanfara dei Bersaglieri (suonava in entrambe, aprendo di corsa la sfilata della seconda) e quella di Castellazzo Bormida, cittadina che ospita, tra le poche al mondo, un santuario dedicato ai motociclisti. Ogni anno vi si tiene un raduno e la chiesa, un tempo piena di exvoto di campagnoli e cittadini, riceve e benedice i Centauri, metà uomo e metà moto.Con uno di essi, con il casco con le corna in testa, una specie di Obelix motorizzato, su una grossa moto nera con fregi oro, ebbi l’onore di dividere un panino con la mortadella. Stavo a guardare, bambina, quest’omaccione biondastro, a bocca aperta e lui, credendo che osservassi la sua merenda desiderandola o forse perché pensava che quel gesto fosse il massimo possibile della cordialità,non conoscendo una parola d’italiano ( era evidentemente nordico), mi allungò un pezzetto del suo enorme panino ed io lo mangiai senza fiatare ( quando invece a casa mangiavo poco o niente), perché temevo che il gigante si fosse infuriato se soltanto non avessi accettato quel suo tribale dono. All’offerta della birra però…rifiutai e lui si mise a ridere come penso possa ridere Mangiafuoco, se soltanto fosse vivo e non un personaggio di carta.
A San Giuseppe si fanno le frittelle, ma mia madre faceva le “gasse”, che so fare anch’io pur non provandoci da un decennio. Chiamatele bugie, chiacchiere, altrove. Da noi sono “ i fiocchi”, appunto : le “gasse”.
Farina, acqua, poco latte, uova , zucchero, marsala e un po’ di scorza di limone grattugiato. Qui scritto a casaccio e non in ordine di quantità.
Al San Giuseppe si portò la sposa a conoscere al Direttore, come a un parente.
Dal San Giuseppe o dal suo equivalente al femminile uscì mia zia, che restò più di tutti, perché era la più giovane. Educata dalle suore, il massimo del suo disappunto, oggi diremmo del suo scazzo, lo esprimeva gridando : Ohhhh, che stizzzzaaaaaa!!!
Che divenne un tormentone, tanto che, negli anni successivi, tutti misero il massimo dell’impegno a insegnarle le parolacce. Comprese le amiche di mio nonno paterno, che viveva nelle case popolari, allora belle e nuove più della mia abitazione da bambina, che quando ascoltavano le canzoni napoletane dicevano “ I fon amnì smort!” ( Fanno “venire smorti”, ovvero svenire, dalla bellezza) e si perdevano appunto in sognanti svenevolezze, ma se contraddette in qualcosa sfoderavano un repertorio degno d’un portuale. Battendolo sicuramente ai punti.
In un San Giuseppe e da un San Giuseppe non entra più nessuno, non c’è più da tantissimo tempo e menomale, buon segno.
Restano, altrove, bambini senza famiglia.
Bambini svantaggiati senz’ombra sotto al sole cocente del mondo.

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