lunedì 19 marzo 2012

Virginicchia, II parte

Prosegue il racconto tratto dall'antologia "Ribelli":




Lui era il Re. Non me ne voglia Vittorio Emanuele II, un Re vero e non un principiante pronto a strappare la vita ai ribelli. Al nord ai repubblicani, a sud ai ribelli all'autorità savoiarda. Un Re costretto ad uccidere gli amici, per il trono. E a me fare l'Italia, quando mio cugino tentava di fare gli Italiani. Ho fatto del mio meglio, ma dubito che questi ultimi siano poi venuti bene. Che non siano rimasti i divisi rancorosi piccoli popoli cresciuti all'ombra dei campanili...?
Il mio cadavere fu sepolto senza la vaporosa eppur succinta camiciola, senza il cuscino che mi ricamò Giorgio ( per il dolce capo materno e il suo riposo, la dedica), senza i gioielli su cui s'avventarono gli eredi ed erano ben poca cosa, niente più di un ricordo d'amore. Braccialetti, che non donarono bellezza aggiunta a chi il mio fascino non ha mai posseduto. Non avevo più nulla, di materiale. Soltanto le spoglie imbalsamate di chi mi amò senza sapere se fossi bella o no: i miei cani.
Li volevo sepolti con me, nella mia bara, ma chi mi depose non lo trovò dignitoso. La bella e le bestie.
I miei cani bestie non lo furono mai, ma furono trattati con la tutta la dolcezza che non riservai  né alla bramosia maschile né all'invidia livida femminile. Mi amavano senza sapere quale giarrettiera indossassi. Mi amavano senza odiare il cobalto dei miei occhi, in una visione di un costante bianco e nero. I miei cani videro il bianco della mia serenità, il nero del mio dolore. Non uno giace con me, a tenermi compagnia in eterno, perlomeno tra mortali spoglie. Che chiesi poi? I bracciali, il cuscino sul cuore del mio ragazzo,i miei cani, il vessillo che unì l'Italia, la mia camicia. Nulla di più. Ignorata, dimenticata, confinata. M'accompagnarono qui le persone umili che ebbero infine cura di me, un corteo di camerieri. Per loro ero la Contessa, per altri la puttana in disgrazia di uno sconfitto.
Eppure come corsero i Bersaglieri ai capricci bellici del mio Napoleone! Quanti ne morirono, tra i Turchi, uomini d'onore e di speranze.
Uomini che io non conobbi mai, confinata com'ero tra le trine.
Volle il divorzio, il Conte, quasi vergognandosi di una cocotte, ma io nacqui nobile quanto lui e lo si leggeva nei tratti.
Sì, mi danzava nel sangue un'antenata ballerina, ma d'alto lignaggio.
Quanti ne morirono, anche di Garibaldini. Non fu una passeggiata e che dire di quel povero Pisacane e di quella ragazza che impazzì di dolore trovando morto anche il suo bel Capitano, tra i trecento. Giovani, forti e tutti morti. Il sangue degli illusi, lastrica le strade della sconfitta. La vittoria invece è vivace, è schiava di Roma, le porge la chioma che viene scagliata in cielo,come quella di Berenice. Là si affollano miti, celebrazioni, sogni infranti e realizzati. In un punto ben preciso del cielo che conosco solo io ed è esattamente il punto di cielo che Napoleone toccava con un dito quando era con me.
Lei mi odiava. Lei che era la mia rivale, Eugenia. Lei che fissò a lungo i cinque giri di perle al mio collo, percorrendoli come giri di un circuito con il veleno dei suoi occhi.
Azzurri, come i miei.
Fu una glaciale e orrenda battaglia.
Sposata per amore, amata per sesso, mai mi perdonò di avere oscurato il suo astro radioso. Un astro ben più intenso del mio. Toccò quasi il secolo, come non fu per me, che mi spensi in tutta modestia e ben prima, poco più che sessantenne. Non avrei retto la deriva della vecchiaia.
Ricordo il giorno in cui c'incontrammo, la mia fama mi aveva preceduta.
Attraversavo io il salone, lei restava immobile al centro.
Entrambe elegantissime,lei la stella di Charles Worth, io del mio ingegno.
Lei rinnovava i fasti di Maria Antonietta, io la eguagliavo in crinoline.
Puntò gli occhi sul mio collo. Entrambe avevamo collo lungo, candido, di cigno.
Vide le perle e inorridì.
Sposa dell'amore, ne ricevette dal marito, a suo tempo, dono di passione.
Stessa passione lesse sulla mia pelle e lei, che l'aveva strappato ad Adelaide, nipote della Regina Vittoria.
Da allora, fu il delirio.
Troppe donne nel letto di Napoleone. C'era una piega amara nel sorriso formale di Eugenia. Nascondeva l'astio nei confronti di nobildonne e borghesi ( anche la figlia di un calzolaio), tutte frequentatrici ben pagate del talamo reale, alcune liquidate con una piccola fortuna. Due figli aveva avuto da una cucitrice, un'anonima donnetta delle Tuileries. Senza pace, quell'uomo. Mi vide e nello sguardo, fiero, qualcosa mi diceva:Tu, come ogni altra e così non fu.
Io sola so, io come mi amò.
Sarebbe stata italiana , l'imperatrice di Francia!
Illusa, ebbe a dirmi Eugenia, mostrandomi il trifoglio di smeraldi, per avermi mi sposò, tu non sarai la prima e neppure l'ultima.
Un'altra oltre me e dopo di me? Com'era mai possibile?
Lo fu.
Valentine.
Ne ebbe un altro figlio.
Ah, Eugenia. Accomunate dalla stessa sofferenza. Tradite dallo stesso uomo, madri orfane di figlio unico. Morì, come morì Giorgio, il tuo Loulou, e a colpi di zagaglia.
Quella stessa che colpì demolendolo il mio narcisismo fino a darmi il senso della finitezza, della disperata disgrazia di sfiorire in vita, senza esserne inconsapevole come un fiore. Tu però fosti forte, io mi spensi.
La tua condanna fu sopravvivere 40 anni alla morte del tuo ragazzo con gli occhi chiari. Per me, la sofferenza fu più breve.
Le dissi, con malizia: la più bella è Sissi, il giorno che mi fece notare come la mia eleganza osasse troppo.
Non l'ho mai pensato,ma è tutto ciò che poteva, di velenoso, dire, una cortigiana.
Lo raccontavo nei miei scritti, così come descrivevo vizi e virtù sia di Napoleone che di Vittorio Emanuele II.
I miei carteggi, i miei appunti furono distrutti, così come si voleva distruggere la mia memoria. Nulla mi ricorda, nella mia terra, che senza me non sarebbe mai stata Italia. La stella cometa che sorvolò la mia casa alla mia nascita non poteva annunciare che un grande evento e l'Italia è mia creatura.
Lo è non meno delle donne che persero la vita accanto ai repubblicani, che sostennero garibaldini e cospiratori, che fiaccarono la loro bellezza con la fatica di vivere, che misero a rischio averi e famiglia. Mai più di me e della mia discussa reputazione, messa in forse anche all'attentato inscenato e orchestrato da Eugenia.
Si parlerà molto dei miei specchi.
Nessuno sarà capace nemmeno d'immaginare che vedevo ogni volta che mi specchiavo. Non le rughe o la pinguedine dell'età.
Io vedevo tutto quanto era perduto.
Tutto. Compreso il mare, a Spezia.
Almeno Costantino morì a Rapallo.
Qualcuno disse che eravamo vittime di credenze e illusioni, di esoterismo e disturbi della personalità. Narcisismo, dicevano. Ma come non pensare d'essere unica, se tutti s'innamorano di te e tu stessa t'ami a tal punto da portarti il lutto, quando nemmeno gli abiti ti rendono il massimo splendore. Sicuramente non m'ha amato Dio, dandomi un dono senza scrigno per custodirlo. Non volevo alcun funerale religioso, infatti. Nessun clamore inutile.
Invece mi portarono davanti ad un altare e intanto setacciavano casa e distruggevano ogni missiva, ogni appunto di quell'uomo che solo negò la mia bellezza ed il mio fascino superiori e morì come un cane randagio, calciando contro la Chiesa, portando con sé la fine del suo povero confessore.
Non avevamo remore cattoliche. Eravamo oltre.
E a Dio perdono non chiedo.
Se sono innamorata?
Del mio piccolo ultimo cane.
Del suo modo di guardarmi, come se io fossi Dio.
Lo sguardo dei cani innamorati è come quello degli uomini brutti. Implorante e fiducioso. Con la differenza che il cane ama per sempre, l'uomo brutto sarà fiero di te fino al giorno in cui, avuta te, non sarà tronfio di sé.




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