domenica 18 marzo 2012

Virginicchia

Per chi dice : "scrivi", l'ultimo racconto pubblicato, per l'antologia " Ribelli", una prima parte di "Virginicchia", un racconto dedicato a Virginia Oldoini, la Contessa di Castiglione.
L'antologia, scritta in onore dell'Unità d'Italia, raccoglie racconti che partono dall'Ottocento e arrivano ai giorni nostri. Ho scelto di parlar di lei, la mitica Contessa, riabilitandone la fama.
Chissà, se ci sono riuscita...


VIRGINICCHIA

Stava racchiusa nel suo pugno. Me la tolse e poi l'appallottolò, racchiudendola tra le sue dita. Mi sdraiai mollemente su un fianco, sapevo  ovviamente reggere il suo sguardo anche senza veli, eppure quella minuscola camicia di seta l'aveva sedotto, con il suo bel tessuto cangiante, il lieve bordo di pizzo della sfumatura più delicata dei miei occhi nelle giornate serene. Mi disegnava le curve come l'acqua di sorgente accarezza e lambisce le rocce dalle quali nasce. Come l'acqua scivolava sulle mie forme, rinfrescandone la bellezza. Per essere bella, ero bella. Alta, bionda, opulenta. Non l'unica bella donna che percorreva saloni di palazzo e saliva e scendeva scaloni di rappresentativa vanità gentilizia di quei tempi. Molte eravamo, tutte bellissime. Ciò che forse mi distingueva era l'assoluta coscienza  e certezza dell'Io. Ho sempre avuto in me la perfetta consapevolezza di ciò che fossi: un'idea. Una Dea. Uno scampolo d'iperuranio al quale ambire. Una perla da possedere, una gemma da custodire, una pietra di paragone, un feticcio da odiare, un animale da sottomettere, un desiderio da domare.
Me ne accorsi bambina. Nessuno sguardo mi ammirava compassionevole. Non un paio d'occhi si soffermava su di me mostrandomi un puro, tiepido, rassicurante abbraccio d'amore. Mi si guardava con cupidigia, mi si mostrava con vanto e fierezza, mi si gonfiavano le piume di sorella vanità. Fierezza che non ha mai abbandonato il mio sguardo viola. Che poi qualcuno lo vide viola cupo, chi invece blu. Chi lo recepì d'un oscuro verde bottiglia e chi grigio come acciaio di lama, ma io sola so che fu colore del mar Ligure verso l'ora del tramonto, quando il verde si cangia in indaco e poi sprofonda nel blu e infine la foschia tinge di grigio. Ora si direbbe: occhi azzurri, decisamente azzurri, senza svenevolezze cilestrine di dolciastro pallido, ché io dolce non fui mai. Io dovevo essere puro alabastro, statua di carne, così come la Principessa di Metternich mi definì ( bontà sua, fu una delle definizioni meno crude che mi diedero), in cui la dolcezza possa essere un vezzo e una posa di pura leggiadria acquisita un po' per nascita, un po' per educazione.
Quel nulla di seta ricamata, rimase nel suo pugno per poco. Aprì la mano e guizzò a terra e lì restò finché io non la raccolsi stringendola, a coppa, tra le mani, ad amplesso compiuto. Ufficiale amante.
Di quella seta è fatta la bandiera italiana,mutuata da quella francese nei tre colori. Soltanto il blu è diventato verde, ma al centro avrebbero dovuto cucire un lembo della mia gloriosa camicia. Non mi sarebbe perlomeno stata sottratta.
La trovarono, cimelio, in una casa patrizia. Io, oggetto da collezione, quando furono gli altri, i concupiti, i miei oggetti/soggetti da annotare, descritti in pochi tratti, come su un fedele taccuino di viaggio del Migliara. Acquarelli di parole, i miei incontri, tuttavia cifrati, pennellate dense e scarse.
Sedurre per essere viva.
Sedurre per indurre a sperare.
Severo e poco indulgente con la nobiltà, quel genovese, ha  di certo guardato con stizza e sufficienza le manovre di mio cugino per regalare l'Italia ai Savoia. Di sicuro m'avrà sottovalutata, per non dovere ammettere che le carni di un'aristocratica han dato una patria per cui morire anche ai repubblicani.
Giovane Italia, Giovane Virginia, che di verginale aveva la pelle eburnea delle pallide creature lunari e chiare e questa luna, questa notte, che lambisce la mia lapide, mi ricorda le veglie e i sospiri che accompagnarono le mie tante morti. Mi morì il vecchio Conte, mai amato. Mi morirono intorno miriadi di attempati ammiratori, nel corso del tempo, mi mancarono gli adorati cani , ma soprattutto mi morì il mio bambino.
Il mio “bambino”.
Nessuna madre può sopravvivere alla morte di un figlio, checché ne dicano coloro i quali pensarono che piansi sulle mie rughe, sulle mia carne che si scollava vizza dalle ossa, sulle mie guance sempre meno piene o sui miei seni. Non invecchiai mai a sufficienza per assistere a ciò che l'invidia altrui auspicava da sempre e ancora oggi augura a qualsiasi donna bella: il disfacimento. La perdita di tono e di senno. Il tramonto della superbia che rende una donna bella invincibile tranne che dall'età. Come se io lo temessi veramente. Non si teme il decadimento, semmai, da leone morente si temono soltanto i calci in faccia dei somari.
Il mio Giorgio non c'era più. Con lui, qualsiasi futuro, tramontato l'astro del “mio” Napoleone III, che mio non fu mai. Il caro cugino ne approfittò per dar di scacco matto al Pontefice. L'Italia era fatta, Nicchia da quel momento poteva anche diventare sfatta. Sciocco. Un'icona non muore, sempre che non la s'infanghi, non la si tratti con disprezzo o peggio, con indifferenza. Non tornai mai in Italia. Non dopo il divorzio chiestomi da un disperatissimo cornuto, stanco di portare macchie sul blasone, ma Giorgio, quel Dio che non ho voluto ai funerali, non avrebbe mai dovuto strapparmelo.
Sarei rinata, tra le sue braccia adulte, chiedendo perdono di donna, cercando nei suoi occhi le stesse voglie di qualsiasi uomo per una donna, facendolo riflettere sulle umane debolezze, specie maschili, chiedendogli di perdonare di aver catturato tante anime di passaggio, giunte al mio letto a far da custodi a corpi innamorati. Virginicchia, bottino da Re.
Nicchia sarebbe andata , così, a perdersi tra ricordi di lenzuola e sarebbe rimasta la madre.
Giorgio morto, la mamma non nacque mai a vita contemplativa della vita che scorre in altre vite.
Non che ritenessi da quel momento la vita un grande bene. Semmai un capitale, un patrimonio da sperperare in un lusso sontuoso quanto superfluo ornamento di un corpo perfetto, in realtà mirabile cassa di risonanza di una mente che fa del corpo il suo oggetto d'arte, da vestire e rivestire di fascino creativo. Non per nulla sono amica, qui nell'eternità, di Coco Chanel. Abbiamo avuto amori simili e creatività da vendere e siamo morte quasi folli, sole e sfinite. All'ombra del mito del nostro nome e alle fanciulle in fiore che eravamo state.
In Italia di me nulla si sa. In Francia fui icona di bellezza ed eleganza, di sensualità e charme.
L'Italia non vuole avere le mie chiome bionde, se ne vergogna. L'Italia è una bruna mediterranea, prolifica e fedele.
Giorgio morto, stavo ore alla finestra a stringerne un piccolo cuscino, che ricamò bambino, punto su punto, anche aspettando una madre d'altri sospiri avvinta.
Che poi furono spesso sospiri fasulli, tranne quando la testa di qualcuno di questi grandiosi pur sempre umani personaggi della Storia, s'infilava tra le mie cosce. Allora sì, gemevo, ma sono piaceri che si dimenticano, così come si dimentica il dolore. Resta il ricordo di sudore e bava.
Rivoltante.
Più fascinosa l'attesa. Più attraente la conquista. Più coinvolgente la scelta di trine sofisticate, di lacci civettuoli, di velluti chiari, di lini trasparenti, di voile di seta limpidissimo e leggero. Cristallo di stoffa.
Grande opera artistica, la seduzione. Quando l'uomo è già in ginocchio, è già finita.
Non con Napoleone. Lui, no.



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