Per chi dice : "scrivi", l'ultimo racconto pubblicato, per l'antologia " Ribelli", una prima parte di "Virginicchia", un racconto dedicato a Virginia Oldoini, la Contessa di Castiglione.
L'antologia, scritta in onore dell'Unità d'Italia, raccoglie racconti che partono dall'Ottocento e arrivano ai giorni nostri. Ho scelto di parlar di lei, la mitica Contessa, riabilitandone la fama.
Chissà, se ci sono riuscita...
VIRGINICCHIA
Stava
racchiusa nel suo pugno. Me la tolse e poi l'appallottolò, racchiudendola tra
le sue dita. Mi sdraiai mollemente su un fianco, sapevo ovviamente reggere il suo sguardo anche senza
veli, eppure quella minuscola camicia di seta l'aveva sedotto, con il suo bel
tessuto cangiante, il lieve bordo di pizzo della sfumatura più delicata dei
miei occhi nelle giornate serene. Mi disegnava le curve come l'acqua di
sorgente accarezza e lambisce le rocce dalle quali nasce. Come l'acqua
scivolava sulle mie forme, rinfrescandone la bellezza. Per essere bella, ero
bella. Alta, bionda, opulenta. Non l'unica bella donna che percorreva saloni di
palazzo e saliva e scendeva scaloni di rappresentativa vanità gentilizia di
quei tempi. Molte eravamo, tutte bellissime. Ciò che forse mi distingueva era
l'assoluta coscienza e certezza dell'Io.
Ho sempre avuto in me la perfetta consapevolezza di ciò che fossi: un'idea. Una
Dea. Uno scampolo d'iperuranio al quale ambire. Una perla da possedere, una
gemma da custodire, una pietra di paragone, un feticcio da odiare, un animale
da sottomettere, un desiderio da domare.
Me ne
accorsi bambina. Nessuno sguardo mi ammirava compassionevole. Non un paio
d'occhi si soffermava su di me mostrandomi un puro, tiepido, rassicurante abbraccio
d'amore. Mi si guardava con cupidigia, mi si mostrava con vanto e fierezza, mi
si gonfiavano le piume di sorella vanità. Fierezza che non ha mai abbandonato
il mio sguardo viola. Che poi qualcuno lo vide viola cupo, chi invece blu. Chi
lo recepì d'un oscuro verde bottiglia e chi grigio come acciaio di lama, ma io
sola so che fu colore del mar Ligure verso l'ora del tramonto, quando il verde
si cangia in indaco e poi sprofonda nel blu e infine la foschia tinge di
grigio. Ora si direbbe: occhi azzurri, decisamente azzurri, senza svenevolezze
cilestrine di dolciastro pallido, ché io dolce non fui mai. Io dovevo essere
puro alabastro, statua di carne, così come la Principessa di Metternich mi
definì ( bontà sua, fu una delle definizioni meno crude che mi diedero), in cui
la dolcezza possa essere un vezzo e una posa di pura leggiadria acquisita un
po' per nascita, un po' per educazione.
Quel
nulla di seta ricamata, rimase nel suo pugno per poco. Aprì la mano e guizzò a
terra e lì restò finché io non la raccolsi stringendola, a coppa, tra le mani,
ad amplesso compiuto. Ufficiale amante.
Di
quella seta è fatta la bandiera italiana,mutuata da quella francese nei tre
colori. Soltanto il blu è diventato verde, ma al centro avrebbero dovuto cucire
un lembo della mia gloriosa camicia. Non mi sarebbe perlomeno stata sottratta.
La
trovarono, cimelio, in una casa patrizia. Io, oggetto da collezione, quando
furono gli altri, i concupiti, i miei oggetti/soggetti da annotare, descritti
in pochi tratti, come su un fedele taccuino di viaggio del Migliara. Acquarelli
di parole, i miei incontri, tuttavia cifrati, pennellate dense e scarse.
Sedurre
per essere viva.
Sedurre
per indurre a sperare.
Severo
e poco indulgente con la nobiltà, quel genovese, ha di certo guardato con stizza e sufficienza le
manovre di mio cugino per regalare l'Italia ai Savoia. Di sicuro m'avrà
sottovalutata, per non dovere ammettere che le carni di un'aristocratica han
dato una patria per cui morire anche ai repubblicani.
Giovane
Italia, Giovane Virginia, che di verginale aveva la pelle eburnea delle pallide
creature lunari e chiare e questa luna, questa notte, che lambisce la mia
lapide, mi ricorda le veglie e i sospiri che accompagnarono le mie tante morti.
Mi morì il vecchio Conte, mai amato. Mi morirono intorno miriadi di attempati
ammiratori, nel corso del tempo, mi mancarono gli adorati cani , ma soprattutto
mi morì il mio bambino.
Il
mio “bambino”.
Nessuna
madre può sopravvivere alla morte di un figlio, checché ne dicano coloro i
quali pensarono che piansi sulle mie rughe, sulle mia carne che si scollava
vizza dalle ossa, sulle mie guance sempre meno piene o sui miei seni. Non
invecchiai mai a sufficienza per assistere a ciò che l'invidia altrui auspicava
da sempre e ancora oggi augura a qualsiasi donna bella: il disfacimento. La
perdita di tono e di senno. Il tramonto della superbia che rende una donna
bella invincibile tranne che dall'età. Come se io lo temessi veramente. Non si
teme il decadimento, semmai, da leone morente si temono soltanto i calci in
faccia dei somari.
Il
mio Giorgio non c'era più. Con lui, qualsiasi futuro, tramontato l'astro del
“mio” Napoleone III, che mio non fu mai. Il caro cugino ne approfittò per dar
di scacco matto al Pontefice. L'Italia era fatta, Nicchia da quel momento
poteva anche diventare sfatta. Sciocco. Un'icona non muore, sempre che non la
s'infanghi, non la si tratti con disprezzo o peggio, con indifferenza. Non
tornai mai in Italia. Non dopo il divorzio chiestomi da un disperatissimo
cornuto, stanco di portare macchie sul blasone, ma Giorgio, quel Dio che non ho
voluto ai funerali, non avrebbe mai dovuto strapparmelo.
Sarei
rinata, tra le sue braccia adulte, chiedendo perdono di donna, cercando nei
suoi occhi le stesse voglie di qualsiasi uomo per una donna, facendolo
riflettere sulle umane debolezze, specie maschili, chiedendogli di perdonare di
aver catturato tante anime di passaggio, giunte al mio letto a far da custodi a
corpi innamorati. Virginicchia, bottino da Re.
Nicchia
sarebbe andata , così, a perdersi tra ricordi di lenzuola e sarebbe rimasta la
madre.
Giorgio
morto, la mamma non nacque mai a vita contemplativa della vita che scorre in
altre vite.
Non
che ritenessi da quel momento la vita un grande bene. Semmai un capitale, un
patrimonio da sperperare in un lusso sontuoso quanto superfluo ornamento di un
corpo perfetto, in realtà mirabile cassa di risonanza di una mente che fa del
corpo il suo oggetto d'arte, da vestire e rivestire di fascino creativo. Non
per nulla sono amica, qui nell'eternità, di Coco Chanel. Abbiamo avuto amori
simili e creatività da vendere e siamo morte quasi folli, sole e sfinite.
All'ombra del mito del nostro nome e alle fanciulle in fiore che eravamo state.
In
Italia di me nulla si sa. In Francia fui icona di bellezza ed eleganza, di
sensualità e charme.
L'Italia
non vuole avere le mie chiome bionde, se ne vergogna. L'Italia è una bruna
mediterranea, prolifica e fedele.
Giorgio
morto, stavo ore alla finestra a stringerne un piccolo cuscino, che ricamò
bambino, punto su punto, anche aspettando una madre d'altri sospiri avvinta.
Che
poi furono spesso sospiri fasulli, tranne quando la testa di qualcuno di questi
grandiosi pur sempre umani personaggi della Storia, s'infilava tra le mie
cosce. Allora sì, gemevo, ma sono piaceri che si dimenticano, così come si
dimentica il dolore. Resta il ricordo di sudore e bava.
Rivoltante.
Più
fascinosa l'attesa. Più attraente la conquista. Più coinvolgente la scelta di
trine sofisticate, di lacci civettuoli, di velluti chiari, di lini trasparenti,
di voile di seta limpidissimo e leggero. Cristallo di stoffa.
Grande
opera artistica, la seduzione. Quando l'uomo è già in ginocchio, è già finita.
Non
con Napoleone. Lui, no.
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