Una donna noiosa
Se mi siedo accanto a lei su quel
divano che sta tra il colore del sugo dell’arancia rossa e il mattone sbiadito
di certe pavimentazioni di vecchie terrazze Anni Settanta, ho tre scelte:
seguire il telefilm del momento, sfogliare una rivista di moda e politica,
guardare un film falsamente impegnato con lunghe inquadrature su soffitti, da
cui penzolano lampadine solitarie o fisse su rubinetti che gocciolano. Durante
la visione del telefilm, in cui una ninfomane colleziona scarpe e condivide le
sue esperienze parlandone al coinquilino gay, che impazzisce per mobili laccati
e nerboruti allenatori di rugby, ride. Ride fragorosamente, sia da sola, sia
quando telefona all’amica Chiara e ne parla, ne parla, ne parla…
Sta invece pensosa, cogita, quando
riflette sul messaggio recondito ed intrinseco del film d’autore, del quale ha
letto la recensione sulla rivista patinata di cui sopra, che mescola soluzioni
contro la crisi ( sempre diverse da quelle adottate da qualsiasi governo) a
recensioni sugli spettacoli e foto di passeggiate sul red carpet di imberbi
attori e attrici tutte eguali, con scapole alate che spuntano da vestitucci
succinti di raso cangiante e ginocchia ossute tremolanti su tacchi altissimi.
Trampoli che sfilano stecche da biliardo, a volte senza speranza di sembrare
gambe atte a camminare. E pensare che camminare in modo disinvolto e comodo è
così bello! Lo so bene io, che non lo faccio più da tempo immemorabile, povera
me.
Quando legge la sua rivista
preferita, che alterna foto d’autore di costose scarpe esteticamente rilevanti
ad immagini di bambini premorti del Corno d’Africa, assume un atteggiamento che
definirei…coinvolto, sia che ammiri una Lanvin, sia che si documenti sulla fame
e la miseria nel mondo e mica quella ordinaria, della sciampista a 600 euro al
mese, quella che sembra un pozzo senza fondo in cui specchiarsi da secoli,
sempre che si riesca a scorgervi un pelo d’acqua. Allo stesso, identico modo.
Parla anche di tutto ciò
all’amica Chiara ed io ascolto, non è che mi sia rimasto molto da fare, oramai,
qui e tu non ci sei mai. Passati i tempi di quando di continuo m’andavo a
rimirare nello specchio nell’abito da sposa, scelto volutamente grandioso,
tutto pizzi e sottogonne, gonfio come una meringa di zuccherosa speranza, ancora
adornato del mazzolino di viole che mi regalasti ( era l’alba della primavera),
paga perlomeno del fatto che sì, m’avevi finalmente portata all’altare dopo un
decennio d’attesa. Segno inequivocabile che non avresti potuto vivere senza di
me.
A parte il fatto che senza di me
sei riuscito a vivere benissimo, sostituendomi ben presto con la qui presente
signora seduta sul divano tinta aragosta in vasca dalla sorte più che certa,
conosciuta allo sportello della banca, il vestito è diventato qualcosa tra il
grigio e il giallastro, inguardabile e le violette sono appassite e il
mazzolino penzola, chino verso il basso e a me non resta che scivolare lungo le
pareti del corridoio di casa, che una volta morti, già…non si cammina più. Si
fluttua, si scorre, si appare. Sbagliato dire che ci si materializza. Ma quale
materia! La sostanza è ben altro, lo dico sempre a me stessa quando vedo la tua
gentil consorte perennemente a dieta mangiarsi a cucchiaiate quell’ammasso di
grassi dolci che chiama gelato in barattolo, sempre avvinghiata al suo telefilm
stupido preferito, alla sua rivista falsamente colta, al suo film fastidioso e
lento, ricco com’è d’immutabili inviti alla riflessione sul vuoto esistenziale.
Macché vuoto! Avercela, un’esistenza! Non perderla in un incidente stradale in
viaggio di nozze, ad esempio. Giusto dopo essersi affacciata dal balcone di
Giulietta a Verona ed aver fatto il giro di Venezia in gondola, tronfia di un
amore imperituro e robusto.
Un amore che invece perì,
complici tutte quelle che consolarono il vedovo inconsolabile. Le donne possono
essere molto generose in certi frangenti.
Generose come questa qui, che
però si guarda bene dal dirti che ha un gruzzoletto dieci volte più cicciosetto
di quel che credi tu. L’anima cara, che ti fu di massimo aiuto nel momento di
tragica solitudine, si sta mettendo al riparo dalle ripercussioni economiche
del divorzio che le chiederai, innamorato come sei della camerierina albanese
che ti serve il caffè turco nel piccolo ristorante cinese. Hai dato una svolta
internazionale alla tua vita. Con lei sei andato in viaggio di nozze alle
Maldive, in vacanza in Marocco, a Capodanno a Cuba. Con la camerierina ti sei
già concesso una scappata a Montecarlo, una breve vacanza al sole della
Croazia, una veloce fuga in un’isola greca dalle casette candide ( no, cara,
mangia pure il tuo gelato, non era ad un Congresso medico,magna, guarda il film
e leggi le tue stronzatine, cara, la realtà non cambia…).
Insomma, non ero l’amore immenso
ed infinito che pensavo, scrivendo le nostre iniziali sulle pareti dell’androne
della casa (forse) di Giulietta Capuleti.
Ci ho creduto. Ci ho creduto
persino da morta, quando ho scelto di dimorare qui, di vivere con te e tua
moglie, alla quale ho concesso di prendere il mio posto per non pensarti solitario
e ramingo, mai più pensando che sarei stata più con lei che con te. Non è vero
che i fantasmi possono comparire dove vogliano. No, pregiudizi, sentito dire,
luoghi comuni. Siamo stanziali, tutta la letteratura ne parla, incluso il
divertente e patetico fantasma di Canterville. Dove siamo, restiamo.
A me tocca ora la balenottera
biondastra che trasuda gelato su un divano color pentolaccia.
Tu te ne vai, qui e là.
Mi guarda, l’occhio pallido, tra
l’azzurro e il verde, acquoso e dice:
-
Non trovi commovente, questo film?
- No, lei si salva. Vuoi che io, che sono morta
spiaccicata sull’autostrada, mi commuova se una tipa casca dalla bici e se ne
sta col trauma cranico per un po’, per poi vedere la luce e infine si converte
alla filantropia e abbraccia tutte le giuste cause del mondo? Ma chi se ne
frega!
Già, mi vede. Da qualche tempo in
qua, mi vede. Così che faccio sì, quattro chiacchiere, ma ho perso però la mia
pace perché, lasciatelo dire, è stupida. E’ decisamente, inequivocabilmente
cretina dalla testa ai piedi, ma ti ci sei messo perché te la dava sovente, che
è poi ciò che attrae di più all’inizio e stufa maggiormente in breve tempo.
Menomale che c’è il cane. E’
dolce, mi sente anche quando non mi vede, mugola, s’accuccia, si mette pancia
all’aria e mi porta una palla che non potrò tirargli. E’ un mucchietto di pelo,
in meno di quattro chili e della vita sa soltanto che c’è ed è breve.
Quasi quasi che ti spunto
davanti, a sera, al tuo rientro, all’improvviso e ti spavento a morte, così
crepi anche tu e sul divano tinta scaglie di mattone ti ci siedi pure tu, a
guardare tua moglie sgranocchiare barrette di muesli in cui un po’ di mangime
da uccellini sta insieme incollato dallo sciroppo di glucosio. Piangendo,
ovvio.
Se muori, poi…piange. Meno però
se invece te ne vai con la camerierina, esponendola al pubblico ludibrio. La
vedovanza ha una sua nobiltà che il divorzio non ha.
Ci penserò, in fondo, a forza di serate sul
divano rosso pomodoro secco, mi ci sono affezionata. Al divano, al cane e a lei.
Quando sono sola la notte( lei
dorme, io mai), mi sintonizzo su un canale dove trasmettono un film d’amore
dopo l’altro e le violette riprendono vita.
Potremmo guardarne qualcuno
insieme, io e te.
Morti.
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