Prefazione di Claudio Gallo.
Rispetto alle tradizionali antologie “indaco”nel caso de " Il gioiello di Chrono", gli scrittori hanno dato vita a un esperimento letterario sicuramente interessante. Le storie, infatti, sono legate tra loro da un filo sottile, a volte impalpabile e sono racchiuse da un racconto cornice, come tante pietre in un’unica incastonatura.
Come spiega Claudio Gallo nella sua prefazione: “Quel lieve eco di classicità richiama la “novella a cornice”, una delle strutture letterarie di più antica tradizione. È un’architettura narrativa di grande fortuna, dalle Mille e una notte al Decamerone di Boccaccio, dal Decameroncino di Luigi Capuana alle Novelle marinaresche di Mastro Catrame di Emilio Salgari. Proprio a questa tradizione ricorre il libro curato da Emanuele Delmiglio, scrittore ed editore che ama, quasi sul modello boccacciano, riunire piccole brigate di autori che si mettono alla prova, scegliendo un tema guida cui fare riferimento. Non fuggono la peste, nemmeno vogliono guadagnare un giorno in più di vita come Shéhérazade, ma semplicemente si mettono alla prova per il piacere di raccontare.
L’airone rosso
Vittoria ha quarantacinque anni,
sarà che presto saranno cinquanta, ché la vita trascorre in un soffio. Un
battito di ciglia ed è subito menopausa, che poi non è che sia poi così male, a
modo suo è liberazione da tante noie e paure, allora… liberaci o signore da
tutti i mali, passati presenti e futuri!
Dai mali passati è difficile
liberarsi, ma si può far finta di averlo fatto, prendendo tutto con nonchalance
e la giusta distanza. Fingere, sublimare, nascondere, ignorare, rimuovere. Le
modalità di distacco sono tante. Tutte illusorie, ma si va avanti, checché se
ne dica, la vita prosegue e ci riserva
ancora colpi di scena.
Dei mali futuri si può avere timore,
è lecito. Fa parte del gioco. Temere il futuro con un nodo in gola. Del
presente invece ci si deve occupare, senza distrazioni. Rappresenta l’urgenza.
L’urgenza di Vittoria è sopravvivere. Con dignità. Si è trovata, nella città
dell’oro, da padroncina ad umile operaia. Ha provato a essere la signora di
casa, la moglie ripudiata, la separata orgogliosamente indipendente ed infine,
rimasta vedova, ha azzerato la sua storia personale.
E’ tornata al catename, a non
riuscire ad alzare gli occhi un momento dalla routine, assemblando catene senza
parlare, chiedendo timidamente di poter andare in bagno al bisogno.
Ordinarie catene. Più o meno
pesanti, ma scontate, di serie, di moda o classiche. Così vuole chi sovrasta la
produzione intera, il capitale straniero che qui ha investito, spegnendo a poco
a poco la creatività individuale, che mantiene alta la testa dove sia
possibile con l’originalità che era di
casa, nella città del Cellini. E per Cellini s’intende l’Istituto orafo. Siamo
a Valenza Po, città della gioielleria elegante..
Vittoria lavora per sé e i suoi
figli. Il suo compito è resistere ad ogni scossone, reggere le intemperie.
Questo è il presente. Fabbriche
con dieci operai a Valenza e cinquanta in Cina o nell’Europa dell’est.
Del passato è restato un anello d’ametista
al dito. Vi campeggia una gemma a marquise, montata in oro giallo. Il colore è
intenso, pieno. Il taglio ne sottolinea l’eleganza di certi occhi femminili
dell’immaginario: viola e brillanti.
La gemma riveste il dito di luce
violetta, lo sfina, lo rende reliquia di Fata Turchina…
Vittoria aveva gli occhi di
quello stesso colore, da ragazza. Occhi che sfidavano il cielo in originalità
Nessun azzurro riusciva diventare più cupo e misterioso del blu violaceo di
quello sguardo. Quello che sedusse Emilio, ma non fu vera gloria. Chi è
abituato alle gemme può possederne tante senza amarne nessuna, per quanto sia
un bacio al mirtillo.
Così Vittoria ora guarda verso il
basso il catename che le dà da vivere, ora che è tornata ad essere operaia, ma
l’anello che indossa parla di altri fasti. E’ un gioiello importante.
E’ anima di violetta e profumo
Borsari…
Vittoria lo ebbe da Clara, pochi
giorni prima del matrimonio.
Clara era la suocera e disse più
o meno così: mio figlio è incostante, ama ciò che non ha, disprezza ciò che
possiede, è disattento e nel gestire fortuna e fortune, è meglio che questo lo
tenga tu. E’ una ricchezza di famiglia, appartiene a noi da più generazioni, la
sua provenienza si perde nella notte dei tempi. A quarantacinque anni è regola
non scritta passarlo ad una donna più giovane della famiglia, che rappresenti
il futuro o, combinato con la saggezza acquisita, potrebbe dare luogo a
fenomeni di preveggenza imbarazzanti o non sempre gradevoli e a volte persino
insopportabili. Ricordalo.
Be’: la Clara, detto tra noi, era
sempre stata matta. Matta come suo figlio.
E Vittoria controlla catene, le
lascia scivolare tra le mani, ne scorre con le dita le maglie, controlla
chiusure e indossa un anello antico, da signora, e la marquise violetta lancia
i suoi bagliori d’intorno. L’ametista
conferisce equilibrio e umiltà, serenità e autostima anche in situazioni non
ottimali e per Vittoria il passato è stato sicuramente più gratificante di un
presente che a volte l’ha indotta a vendersi l’anello con pietra viola tagliata
a marquise, ma Clara era una matta a modo suo buona, che era riuscita più volte
a mantenere insieme le cose e le persone, facendo leva sul buon senso di
ognuno. Morta lei, il disastro integrale.
Qualcosa le si doveva, anche
senza credere nei poteri delle pietre preziose più di tanto.
Emilio era pieno di debiti, non
c’era nulla da spartire, ma l’importante era non soccombere. Ricominciare.
Vittoria aveva perciò raccolto il coraggio a due mani ed era andata a chiedere
lavoro, offrendo la sua preparazione nel settore, accontentandosi di
un’occupazione modesta, al di sotto delle competenze acquisite con l’esperienza.
Vittoria lavora davanti ad una
finestra, ciò le permette di scorgere spesso il cielo e condividerne lo stato
d’animo: azzurro limpido e terso, grigio plumbeo e triste, foschia velata di
lacrime e pioggia. Si dice che davanti alla finestra si vedano alzarsi in volo
gli aironi rossi della non lontana Garzaia, più qualche beccaccino e tarabusino
ma Vittoria non ne ha mai visti librarsi, da quel quadretto di finestra.
Ha tuttavia in sé quella quiete
interiore che le consente di sperare a metà, pazientando.
Dovrebbe, a sua volta, levare
l’anello e consegnarlo nelle mani di sua figlia Alessia, ma lei non vuole
saperne. Piuttosto un cello nuovo, ha detto. Un paio di stivali come si deve,
senza tirare sempre al risparmio. Una vacanza a Formentera, sola con le amiche,
finalmente, altro che un gioiello vetusto, che desterebbe l’ammirazione di
pochi minuti e poi resterebbe qualcosa di totalmente inutile, abbandonato in
fondo a un cassetto, per essere probabilmente rivenduto, prima o poi...
L’oro è un bene rifugio. Un tempo
alle signore di casa si regalavano più gioielli e meno vacanze. Non che la
conoscenza fosse meno importante di un gioiello, ma la si riteneva utile se
costituiva un patrimonio e non si limitava ad essere puro divertimento. La vita
era costellata di gioielli, che segnavano i passaggi. Il braccialettino con il
nome inciso, da neonati. Gli orecchini per le femminucce. L’orologio d’oro, la
catena con il ciondolo importante per la prima comunione. Il bracciale o
l’anello di pregio per il compimento dei diciotto anni, il diploma, la laurea.
L’anello, memorabile, di fidanzamento, la vera matrimoniale e poi altri
pensieri: anniversari, nascita dei figli. I gioielli scandivano il tempo.
Vittoria pensa che la sua ametista
sia un bene rifugio nel senso che quando porta quell’anello si sente una
signora d’altri tempi, una signora vera e non importa se possieda più o meno
denaro…scende in lei una calma profonda, a volte irreale, considerata la
situazione. Quasi ottimista. C’è da pensare che sia vero che l’ametista possa
trasmettere pace e tranquillità insperate…
Divinazione? No.
Le ravviva lo sguardo di ragazza.
Vedrò l’airone rosso sorvolare il
centro città, se accadrà, si dice, e sorride.
L’altoparlante fa sentire netta
una voce: Vittoria Taverna è desiderata dal Rag. Ferretti.
Un tuffo al cuore, Ferretti non è
il padrone, ma è il suo tirapiedi. Che vorrà dirle? Che è lenta nella
produzione? Che sta fantasticando?
Vittoria si stringe l’anello al
dito, con pollice e medio della mano
destra. Un gesto scaramantico. Lo fa spesso.
Si sistema la gonna, passa le mani
nei capelli a ravviarli.
E’ in piedi, davanti ad una
scrivania. Ferretti è seduto.
Con un giro di parole le fa capire che
vorrebbe il suo anello. La sua signora ama i gioielli d’epoca e da tempo gli fa
una testa tanta con il desiderio irrefrenabile di possedere un anello antico
con un’ametista. Un anello esattamente come quello che lei indossa. Capricci di
donna.
Anche questo, mi si vuol
togliere, pensa Vittoria, triste.
I soldi proposti sono tanti.
Vittoria ha bisogno e vergogna di
quel bisogno.
Ha in mente il viso di Clara
perplesso, ma tutto è andato, azienda e amori. Resta uno straccio di famiglia
che, dalla vendita, avrebbe sicuro vantaggio.
Se lo sfila.
Cedere ai capricci altrui il
proprio passato è miserabile…
Nello squarcio di cielo che si
vede dalla finestra dietro Ferretti, in quel medesimo istante, sfreccia un
airone, rosso come un tramonto fuori orario, e la mente di Vittoria è, allo
stesso tempo, squarciata da una visione: grave incidente d’auto, Ferretti tra
le lamiere contorte. L’anello che rotola nel fosso e finisce giù, in fondo, nel
fango, a far compagnia alle rane. Degna sepoltura del passato, che non torna
per nessuno.
- Bene – dice Vittoria – mi dia
la metà di quanto mi ha offerto ma in contanti. Subito. Sull’unghia.
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