mercoledì 18 luglio 2012

L'airone rosso

Il racconto che segue è uscito sull'antologia " Il gioiello di Chrono", Delmiglio Editore.
Prefazione di Claudio Gallo.

Rispetto alle tradizionali antologie “indaco”nel caso de " Il gioiello di Chrono", gli scrittori hanno dato vita a un esperimento letterario sicuramente interessante. Le storie, infatti, sono legate tra loro da un filo sottile, a volte impalpabile e sono racchiuse da un racconto cornice, come tante pietre in un’unica incastonatura.


Come spiega Claudio Gallo nella sua prefazione: “Quel lieve eco di classicità richiama la “novella a cornice”, una delle strutture letterarie di più antica tradizione. È un’architettura narrativa di grande fortuna, dalle Mille e una notte al Decamerone di Boccaccio, dal Decameroncino di Luigi Capuana alle Novelle marinaresche di Mastro Catrame di Emilio Salgari. Proprio a questa tradizione ricorre il libro curato da Emanuele Delmiglio, scrittore ed editore che ama, quasi sul modello boccacciano, riunire piccole brigate di autori che si mettono alla prova, scegliendo un tema guida cui fare riferimento. Non fuggono la peste, nemmeno vogliono guadagnare un giorno in più di vita come Shéhérazade, ma semplicemente si mettono alla prova per il piacere di raccontare.

L’airone rosso


Vittoria ha quarantacinque anni, sarà che presto saranno cinquanta, ché la vita trascorre in un soffio. Un battito di ciglia ed è subito menopausa, che poi non è che sia poi così male, a modo suo è liberazione da tante noie e paure, allora… liberaci o signore da tutti i mali, passati presenti e futuri!
Dai mali passati è difficile liberarsi, ma si può far finta di averlo fatto, prendendo tutto con nonchalance e la giusta distanza. Fingere, sublimare, nascondere, ignorare, rimuovere. Le modalità di distacco sono tante. Tutte illusorie, ma si va avanti, checché se ne dica, la vita prosegue e ci riserva  ancora colpi di scena.
Dei mali futuri si può avere timore, è lecito. Fa parte del gioco. Temere il futuro con un nodo in gola. Del presente invece ci si deve occupare, senza distrazioni. Rappresenta l’urgenza. L’urgenza di Vittoria è sopravvivere. Con dignità. Si è trovata, nella città dell’oro, da padroncina ad umile operaia. Ha provato a essere la signora di casa, la moglie ripudiata, la separata orgogliosamente indipendente ed infine, rimasta vedova, ha azzerato la sua storia personale.
E’ tornata al catename, a non riuscire ad alzare gli occhi un momento dalla routine, assemblando catene senza parlare, chiedendo timidamente di poter andare in bagno al bisogno.
Ordinarie catene. Più o meno pesanti, ma scontate, di serie, di moda o classiche. Così vuole chi sovrasta la produzione intera, il capitale straniero che qui ha investito, spegnendo a poco a poco la creatività individuale, che mantiene alta la testa dove sia possibile  con l’originalità che era di casa, nella città del Cellini. E per Cellini s’intende l’Istituto orafo. Siamo a Valenza Po, città della gioielleria elegante..
Vittoria lavora per sé e i suoi figli. Il suo compito è resistere ad ogni scossone, reggere le intemperie.
Questo è il presente. Fabbriche con dieci operai a Valenza e cinquanta in Cina o nell’Europa dell’est.
Del passato è restato un anello d’ametista al dito. Vi campeggia una gemma a marquise, montata in oro giallo. Il colore è intenso, pieno. Il taglio ne sottolinea l’eleganza di certi occhi femminili dell’immaginario: viola e brillanti.
La gemma riveste il dito di luce violetta, lo sfina, lo rende reliquia di Fata Turchina…
Vittoria aveva gli occhi di quello stesso colore, da ragazza. Occhi che sfidavano il cielo in originalità Nessun azzurro riusciva diventare più cupo e misterioso del blu violaceo di quello sguardo. Quello che sedusse Emilio, ma non fu vera gloria. Chi è abituato alle gemme può possederne tante senza amarne nessuna, per quanto sia un bacio al mirtillo.
Così Vittoria ora guarda verso il basso il catename che le dà da vivere, ora che è tornata ad essere operaia, ma l’anello che indossa parla di altri fasti. E’ un gioiello importante.
E’ anima di violetta e profumo Borsari…
Vittoria lo ebbe da Clara, pochi giorni prima del matrimonio.
Clara era la suocera e disse più o meno così: mio figlio è incostante, ama ciò che non ha, disprezza ciò che possiede, è disattento e nel gestire fortuna e fortune, è meglio che questo lo tenga tu. E’ una ricchezza di famiglia, appartiene a noi da più generazioni, la sua provenienza si perde nella notte dei tempi. A quarantacinque anni è regola non scritta passarlo ad una donna più giovane della famiglia, che rappresenti il futuro o, combinato con la saggezza acquisita, potrebbe dare luogo a fenomeni di preveggenza imbarazzanti o non sempre gradevoli e a volte persino insopportabili. Ricordalo.
Be’: la Clara, detto tra noi, era sempre stata matta. Matta come suo figlio.
E Vittoria controlla catene, le lascia scivolare tra le mani, ne scorre con le dita le maglie, controlla chiusure e indossa un anello antico, da signora, e la marquise violetta lancia i suoi bagliori  d’intorno. L’ametista conferisce equilibrio e umiltà, serenità e autostima anche in situazioni non ottimali e per Vittoria il passato è stato sicuramente più gratificante di un presente che a volte l’ha indotta a vendersi l’anello con pietra viola tagliata a marquise, ma Clara era una matta a modo suo buona, che era riuscita più volte a mantenere insieme le cose e le persone, facendo leva sul buon senso di ognuno. Morta lei, il disastro integrale.
Qualcosa le si doveva, anche senza credere nei poteri delle pietre preziose più di tanto.
Emilio era pieno di debiti, non c’era nulla da spartire, ma l’importante era non soccombere. Ricominciare. Vittoria aveva perciò raccolto il coraggio a due mani ed era andata a chiedere lavoro, offrendo la sua preparazione nel settore, accontentandosi di un’occupazione modesta, al di sotto delle competenze acquisite con l’esperienza.
Vittoria lavora davanti ad una finestra, ciò le permette di scorgere spesso il cielo e condividerne lo stato d’animo: azzurro limpido e terso, grigio plumbeo e triste, foschia velata di lacrime e pioggia. Si dice che davanti alla finestra si vedano alzarsi in volo gli aironi rossi della non lontana Garzaia, più qualche beccaccino e tarabusino ma Vittoria non ne ha mai visti librarsi, da quel quadretto di finestra.
Ha tuttavia in sé quella quiete interiore che le consente di sperare a metà, pazientando.
Dovrebbe, a sua volta, levare l’anello e consegnarlo nelle mani di sua figlia Alessia, ma lei non vuole saperne. Piuttosto un cello nuovo, ha detto. Un paio di stivali come si deve, senza tirare sempre al risparmio. Una vacanza a Formentera, sola con le amiche, finalmente, altro che un gioiello vetusto, che desterebbe l’ammirazione di pochi minuti e poi resterebbe qualcosa di totalmente inutile, abbandonato in fondo a un cassetto, per essere probabilmente rivenduto, prima o poi...
L’oro è un bene rifugio. Un tempo alle signore di casa si regalavano più gioielli e meno vacanze. Non che la conoscenza fosse meno importante di un gioiello, ma la si riteneva utile se costituiva un patrimonio e non si limitava ad essere puro divertimento. La vita era costellata di gioielli, che segnavano i passaggi. Il braccialettino con il nome inciso, da neonati. Gli orecchini per le femminucce. L’orologio d’oro, la catena con il ciondolo importante per la prima comunione. Il bracciale o l’anello di pregio per il compimento dei diciotto anni, il diploma, la laurea. L’anello, memorabile, di fidanzamento, la vera matrimoniale e poi altri pensieri: anniversari, nascita dei figli. I gioielli scandivano il tempo.
Vittoria pensa che la sua ametista sia un bene rifugio nel senso che quando porta quell’anello si sente una signora d’altri tempi, una signora vera e non importa se possieda più o meno denaro…scende in lei una calma profonda, a volte irreale, considerata la situazione. Quasi ottimista. C’è da pensare che sia vero che l’ametista possa trasmettere pace e tranquillità insperate…
Divinazione? No.
Le ravviva lo sguardo di ragazza.
Vedrò l’airone rosso sorvolare il centro città, se accadrà, si dice, e sorride.
L’altoparlante fa sentire netta una voce: Vittoria Taverna è desiderata dal Rag. Ferretti.
Un tuffo al cuore, Ferretti non è il padrone, ma è il suo tirapiedi. Che vorrà dirle? Che è lenta nella produzione? Che sta fantasticando?
Vittoria si stringe l’anello al dito, con pollice  e medio della mano destra. Un gesto scaramantico. Lo fa spesso.
Si sistema la gonna, passa le mani nei capelli a ravviarli.
E’ in piedi, davanti ad una scrivania. Ferretti è seduto.
 Con un giro di parole le fa capire che vorrebbe il suo anello. La sua signora ama i gioielli d’epoca e da tempo gli fa una testa tanta con il desiderio irrefrenabile di possedere un anello antico con un’ametista. Un anello esattamente come quello che lei indossa. Capricci di donna.
Anche questo, mi si vuol togliere, pensa Vittoria, triste.
I soldi proposti sono tanti.
Vittoria ha bisogno e vergogna di quel bisogno.
Ha in mente il viso di Clara perplesso, ma tutto è andato, azienda e amori. Resta uno straccio di famiglia che, dalla vendita, avrebbe sicuro vantaggio.
Se lo sfila.
Cedere ai capricci altrui il proprio passato è miserabile…
Nello squarcio di cielo che si vede dalla finestra dietro Ferretti, in quel medesimo istante, sfreccia un airone, rosso come un tramonto fuori orario, e la mente di Vittoria è, allo stesso tempo, squarciata da una visione: grave incidente d’auto, Ferretti tra le lamiere contorte. L’anello che rotola nel fosso e finisce giù, in fondo, nel fango, a far compagnia alle rane. Degna sepoltura del passato, che non torna per nessuno.
- Bene – dice Vittoria – mi dia la metà di quanto mi ha offerto ma in contanti. Subito. Sull’unghia.




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