"Memorie di nebbia selvatica"
In memoria di Lucio Battisti.
Balla Linda
Il marzo
della nostra, noi ...antenni, l'abbiamo trascorso tra Corso Roma e i “Grigi” ed
i nostri giardini di primavera erano quelli della stazione.
Nei
primissimi Anni Settanta, le discoteche erano pochissime, s'incominciava
timidamente a frequentarle ed erano piccole o di medie dimensioni ed in ogni
caso nessuno si sarebbe sognato di trascorrere la serata in automobile per
raggiungere a notte inoltrata località lontane. A ballare s'andava anche in
corriera o in treno. La serata iniziava appena dopo cena e per le ore piccole
si era pronti per il pigiama. I giovanissimi ballavano anche il pomeriggio
della domenica e le ragazze alessandrine accorrevano alle danze a piedi.
Il
“Circolo dei Grigi”* offriva una sala piuttosto piccola se paragonata agli
spazi dei megalocali di oggi, affiancata da un paio di salette ristoro ancor
più piccole. Modesta era anche la pista da ballo, ma non mancavano né il bar né
la pedana per l'orchestra. La musica si godeva dal vivo, i dischi servivano
soltanto a riempire le pause doverose per cantanti e complessi. A volte le
esecuzioni erano a regola d'arte ( non raro il passaggio di qualche futuro big,
della serie “saranno famosi”), altre era appena sopportabile. Il repertorio
alternava pezzi lenti ad altri scatenati, per permettere il ballo moderno.
Il
“liscio” era escluso, finito nel dimenticatoio delle balere in crisi,
considerato vecchiume per genitori e nonni. Sarebbe tornato in auge più tardi.
Scarso successo avevano i balli di gruppo, in voga oggi. O si ballava in due o
tutti, ma soli, ognun per sé e sparpagliati. In tanti, ma con singolo
esibizionismo senza cubo. Il passaggio dai lenti ai veloci era immediato, senza
preavviso e in pista ci si allacciava o ci si slacciava in modo estemporaneo.
Il
nostro gruppo di giovani frequentatrici era eterogeneo: c'erano le belle
ragazzotte di paese, che arrivavano in città con i mezzi pubblici, rotonde di
curve e di carattere, pienotte di allegria; c'erano le brave ragazze di città ,
bardate per la festa, acute di sguardo, in cerca del compagno per la vita e da
tutti evitate come la peste; c'erano le bellone alla moda, pochissime, stelle
fisse in un firmamento mobile, la vera attrazione del locale, per cui i ragazzi
sceglievano il posto dove andare. C'erano infine quelle che arrivavano
slavatine e correvano a truccarsi nei bagni, arrotolandosi poi la gonna in vita
per renderla più corta e spesso erano presenti in incognito, figlie di genitori
che disapprovavano sia il ballo che l'arte del flirt.
Il vero
protagonista dei locali da ballo era, in fin dei conti, l'amorazzo: pomiciare
un po' ballando un lento. Ecco perché formar le coppie era un gioco arduo e
crudele.
Le
ragazze stavan sedute ai tavoli e fingevano d'essere le prede per i ragazzi che
sfilavano puntandole ad una ad una; in realtà se ne stavano lì tronfie a
distribuire rifiuti, perché sapevano con chi avrebbero ballato ( ed altro) fin
da quando avevano messo piede nel locale. La tecnica di conquista consisteva
nell'aspettarlo finché non avesse capito d'essere il prescelto. Rispondere con
un rifiuto ad un invito veniva definito “dar il mestolo”, nel rendere italiana
un'espressione dialettale.
Le
ragazze più ambite ne tenevano il conto, aver dato in un pomeriggio anche
quaranta mestoli, significava molto, aumentava l’autostima, permetteva di
affrontare la settimana successiva veleggiando ad un metro da terra.
Come
avrebbero passato invece la loro settimana i ragazzi rifiutati da tutte o
quasi, me lo immagino soltanto ora, col senno di poi, svaporata la crudeltà di
ieri. Erano studenti, ma più spesso lavoratori, apprendisti ed operai che alla
domenica si tiravano a lustro ben decisi a far rendere la paga settimanale al
meglio. Il loro sabato era assai più speranzoso del lunedì, come nel caso della
donzelletta di classica reminiscenza. Tornavano al lavoro sconsolati, depressi
per la statura bassa, o per il peso inferiore o superiore alla norma, la giacca
più o meno alla moda e maturavano un sottile rancore nei confronti delle donne
che parevano innamorarsi sempre in comitiva , un pollaio intero per un sol
gallo. Il gallo era solitamente alto, snello, capelli lunghi, vestito
all’ultima moda. Nel locale se ne contavano cinque o sei per volta al massimo
ed esibirne uno era un vanto. Sfoggiarli tutti nel giro di un paio di mesi
equivaleva ad un guardaroba di Valentino di oggi, più una laurea in fascino.
Uscire dal locale, all’ora dell’aperitivo serale, in compagnia a mostrare la
conquista nel Corso accresceva rispetto ed invidia nelle coetanee. Tutto finiva
spesso lì, quasi nessuno andava oltre ad una carezza o un bacio. La propria
intimità era ancora molto difesa, preservata, non era una posta in gioco. Il
sesso era l’immaginario personale e collettivo, sognato con grande ingenuinità.per cui: dolci di giorno, fredde di sera.
Il fato
ha combinato per la vita le coppie in modo curioso: qualche exbellona ha
cuccato il gallo per un duo “Principe-Biancaneve”, per un finale
cinematografico, ma più spesso non è andata così. La bella, delusa dal gallo,
ha sedotto e sposato il tipo snobbato al ballo. Il gallo, a sua volta, voglioso
di adorazione, che difficilmente una dea concede, abituata com’è a farsi
adulare, ha impalmato di ripiego un pezzo di tappezzeria: una di quelle che
nessuno invitava in pista, lasciandole a meditare su quali doti affinare per
far capitolare qualcuno. L’abbinamento tuttavia meglio riuscito è forse quello
avvenuto tra due reietti, il ragazzo che consumava le suole in un inutile giro
conquistatore e la ragazza ignorata perché poco avvenente. Accoppiati,
arricchiti, rincuorati a vicenda, messa al mondo un’agguerrita prole, si son
rifatti oggi delle umiliazioni di allora a suon di telefonini, visoni selvaggi
e automobili abbastanza belle da offrire un buon riscatto sociale. Sembrano
persino più belli. La mia generazione non è cresciuta nel mito dei “poveri, ma
belli” degli Anni Cinquanta , si è optato per i “passabili, meglio se
benestanti”. D’altra parte, la “zampa d’elefante” e la vita bassa con la gamba
mediterranea, non avrebbero potuto produrre un gran vanto estetico…
Non
tutti i ragazzi alessandrini, maschi e femmine, frequentavano i locali da
ballo. I rampolli delle famiglie-bene si mescolavano poco alla plebe, avevano
altri luoghi dove organizzavano feste scolastiche e festeggiavano privatissimi
compleanni, in cui si annusavano a vicenda per formare coppie che stringessero
buoni patti patrimoniali e fondessero cognomi prestigiosi, o presunti tali, a
ragione, perché non c’è parte del mondo in cui i quattrini non regalino una
sorta di blasone.
Gli
“impegnati” invece disdegnavano ogni forma di divertimento di massa, puro
consumismo sciocco. Disprezzavano la musica che si ascoltava nei locali,
s’infuriavano al pensiero che per divertirsi fosse necessario pagare ed in ogni
caso preferivano distrazioni che non distogliessero dalla lotta del e per il
proletariato.
Gli
“alternativi” riscoprivano le osterie, le cantine, il vino rosso e le danze
popolari dedicandosi a piaceri proletari, a cui nessun contadino ad operaio
degli Anni Settanta si sarebbe mai dedicato, se non un giorno o due all’anno,
per ridere, alla festa del paese.
In un
locale da ballo avrebbero messo un piedone maldestro all’alba dei trent’anni,
dopo aver fatto pratica sul ballo a palchetto di qualche Festival, ormai
imborghesiti, ingrassato nel corpo e nel portafogli.
C’era
chi, come me e pochi altri, teneva il piede in due scarpe. Dura essere
intellettuali cerebrali, lottatori senza paura nei giorni feriali, con la
complicità della famiglia e sotto l’occhio tollerante di professori conniventi
o rassegnati e poi, al sabato fondarsi dal parrucchiere per esser pronti, alla
domenica a sudare, contorcersi, saltare, ridere e “puntare”, colpevoli, su una
pista da ballo…Gli anni di piombo di molti contestatori erano, in realtà,
caricati a stagno.
La
gioventù tuttavia non è mai spensierata come il mondo più adulto crede, il
riconoscimento del proprio ruolo è conflittuale, ci si rende conto del proprio
impatto ambientale, dell’ascendente che si può avere o ci può essere negato sul
piano personale. I primi amori possono
essere letali per la crescita interiore.
I
ragazzi dei primi Anni Settanta soffrivano e gioivano con la musica di
Battisti. Amavano di ripiego, ma “lui” o “lei” tornava in mente, bello com’era
o forse ancor di più.
Facevano
i conti coi pochi soldini in tasca, perché al “ventuno del mese” le entrate di
molte famiglie si erano estinte ( e qualche critico invece accusò Battisti di
assenza di realismo di classe…).
Soffrivano
se qualcuno aveva perso l’innocenza prima di loro e lontano, sciolte le “trecce
bionde” e levate le “calzette rosse”. Piangevano di un tradimento, increduli,
negandolo, perché “ non era Francesca” e non poteva gettarli via così.
Chiedevano d’esser a loro volta perdonati per una leggerezza “seduti in quel
caffè” e poi non era che un gioco, “non era un fuoco”, ma i”salami”
singhiozzavano egualmente.
Ci si
apriva cauti e timorosi a confessare anche emozioni terribili, come il
desiderio di sfidare la morte “guidando a fai spenti nella notte”, ancora
ignari che a certe provocazioni la morte sghignazza, perché ha sempre, prima o
poi, partita vinta. In realtà non era che un grido di dolore rivolto alla vita,
perché prestasse qualche materna attenzione in più.
Di
illusione in disillusione, si comunicava ad un certo punto che le “mani non
tremavano più” e forse era giunta la voglia di una vita seriamente a due. Ci si
faceva forza, dopo un abbandono con “io vivrò senza te” senza ritrosia nel
descrivere una casa trasandata nel dolore coi suoi “piatti sporchi da lavare”,
ma anche non volendo si “riprendeva a volare”.
Negli
Anni Ottanta chiesi a un musicista di piano-bar , di un festival di partito,
l’esecuzione di “Anche per te”, una splendida canzone, per giunta molto
femminista. Mi fu negata. Battisti era di destra, la motivazione. Sempre stato
e per giunta finanziatore di Ordine Nuovo.
Era
vero? Forse no, forse invece sì. Nessun uomo di sinistra avrebbe detto a una
ragazza “vorrei morir per te”, sarebbe morto per la Causa, forse. Per il Popolo
(astratto), forse, per lei o per me, sola, piccola, insulsa cosa, No.
Negli
Anni Ottanta poi, cambiati i principi ideologici informatori, per la “Carriera”
mi avrebbe anche schiacciata con la Mercedes.
Il 9
settembre 1998 Lucio Battisti è morto.
E’ già
andato, apripista della mia generazione. Ci ha preceduti, ci aspetta, ci
ricorda che marzo è passato. La primavera di noi ..antenni è sfumata.
Qualcuno
starà vivendo i suoi bei giorni d’estate, godendo dei frutti maturi che ha
ottenuto seminando la sua vita. Altri sentono l’autunno nelle ossa. Per
qualcuno, ma se ne tace mesti, per allontanare il pensiero, l’inverno è già
arrivato, come per Lucio.
L’acqua
è azzurra, è chiara, trasparente per alcuni, per altri il mare è nero…ma il
coraggio di vivere ancora non c’è. E’ il segreto inconfessabile. Per una lira,
vendesi sogni usati.
Sogni da
provinciale, da voci da torpedone. Il super Io è maturato con De André, con
Guccini, ma dentro…si agita un animo egocentrico e sentimentale. Chiamatele, se
volete, emozioni. O innocenti evasioni.
Balla
Linda, ogni lasciata è persa.
*
Circolo collegato alla locale squadra di calcio, il cui simbolo è un orso
grigio
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