domenica 9 settembre 2012

Balla Linda

Dalla mia oramai introvabile raccolta di racconti
"Memorie di nebbia selvatica"

In memoria di Lucio Battisti.



Balla Linda

Il marzo della nostra, noi ...antenni, l'abbiamo trascorso tra Corso Roma e i “Grigi” ed i nostri giardini di primavera erano quelli della stazione.
Nei primissimi Anni Settanta, le discoteche erano pochissime, s'incominciava timidamente a frequentarle ed erano piccole o di medie dimensioni ed in ogni caso nessuno si sarebbe sognato di trascorrere la serata in automobile per raggiungere a notte inoltrata località lontane. A ballare s'andava anche in corriera o in treno. La serata iniziava appena dopo cena e per le ore piccole si era pronti per il pigiama. I giovanissimi ballavano anche il pomeriggio della domenica e le ragazze alessandrine accorrevano alle danze a piedi.
Il “Circolo dei Grigi”* offriva una sala piuttosto piccola se paragonata agli spazi dei megalocali di oggi, affiancata da un paio di salette ristoro ancor più piccole. Modesta era anche la pista da ballo, ma non mancavano né il bar né la pedana per l'orchestra. La musica si godeva dal vivo, i dischi servivano soltanto a riempire le pause doverose per cantanti e complessi. A volte le esecuzioni erano a regola d'arte ( non raro il passaggio di qualche futuro big, della serie “saranno famosi”), altre era appena sopportabile. Il repertorio alternava pezzi lenti ad altri scatenati, per permettere il ballo moderno.
Il “liscio” era escluso, finito nel dimenticatoio delle balere in crisi, considerato vecchiume per genitori e nonni. Sarebbe tornato in auge più tardi. Scarso successo avevano i balli di gruppo, in voga oggi. O si ballava in due o tutti, ma soli, ognun per sé e sparpagliati. In tanti, ma con singolo esibizionismo senza cubo. Il passaggio dai lenti ai veloci era immediato, senza preavviso e in pista ci si allacciava o ci si slacciava in modo estemporaneo.
Il nostro gruppo di giovani frequentatrici era eterogeneo: c'erano le belle ragazzotte di paese, che arrivavano in città con i mezzi pubblici, rotonde di curve e di carattere, pienotte di allegria; c'erano le brave ragazze di città , bardate per la festa, acute di sguardo, in cerca del compagno per la vita e da tutti evitate come la peste; c'erano le bellone alla moda, pochissime, stelle fisse in un firmamento mobile, la vera attrazione del locale, per cui i ragazzi sceglievano il posto dove andare. C'erano infine quelle che arrivavano slavatine e correvano a truccarsi nei bagni, arrotolandosi poi la gonna in vita per renderla più corta e spesso erano presenti in incognito, figlie di genitori che disapprovavano sia il ballo che l'arte del flirt.
Il vero protagonista dei locali da ballo era, in fin dei conti, l'amorazzo: pomiciare un po' ballando un lento. Ecco perché formar le coppie era un gioco arduo e crudele.
Le ragazze stavan sedute ai tavoli e fingevano d'essere le prede per i ragazzi che sfilavano puntandole ad una ad una; in realtà se ne stavano lì tronfie a distribuire rifiuti, perché sapevano con chi avrebbero ballato ( ed altro) fin da quando avevano messo piede nel locale. La tecnica di conquista consisteva nell'aspettarlo finché non avesse capito d'essere il prescelto. Rispondere con un rifiuto ad un invito veniva definito “dar il mestolo”, nel rendere italiana un'espressione dialettale.
Le ragazze più ambite ne tenevano il conto, aver dato in un pomeriggio anche quaranta mestoli, significava molto, aumentava l’autostima, permetteva di affrontare la settimana successiva veleggiando ad un metro da terra.
Come avrebbero passato invece la loro settimana i ragazzi rifiutati da tutte o quasi, me lo immagino soltanto ora, col senno di poi, svaporata la crudeltà di ieri. Erano studenti, ma più spesso lavoratori, apprendisti ed operai che alla domenica si tiravano a lustro ben decisi a far rendere la paga settimanale al meglio. Il loro sabato era assai più speranzoso del lunedì, come nel caso della donzelletta di classica reminiscenza. Tornavano al lavoro sconsolati, depressi per la statura bassa, o per il peso inferiore o superiore alla norma, la giacca più o meno alla moda e maturavano un sottile rancore nei confronti delle donne che parevano innamorarsi sempre in comitiva , un pollaio intero per un sol gallo. Il gallo era solitamente alto, snello, capelli lunghi, vestito all’ultima moda. Nel locale se ne contavano cinque o sei per volta al massimo ed esibirne uno era un vanto. Sfoggiarli tutti nel giro di un paio di mesi equivaleva ad un guardaroba di Valentino di oggi, più una laurea in fascino. Uscire dal locale, all’ora dell’aperitivo serale, in compagnia a mostrare la conquista nel Corso accresceva rispetto ed invidia nelle coetanee. Tutto finiva spesso lì, quasi nessuno andava oltre ad una carezza o un bacio. La propria intimità era ancora molto difesa, preservata, non era una posta in gioco. Il sesso era l’immaginario personale e collettivo, sognato con grande ingenuinità.per cui: dolci di giorno, fredde di sera.
Il fato ha combinato per la vita le coppie in modo curioso: qualche exbellona ha cuccato il gallo per un duo “Principe-Biancaneve”, per un finale cinematografico, ma più spesso non è andata così. La bella, delusa dal gallo, ha sedotto e sposato il tipo snobbato al ballo. Il gallo, a sua volta, voglioso di adorazione, che difficilmente una dea concede, abituata com’è a farsi adulare, ha impalmato di ripiego un pezzo di tappezzeria: una di quelle che nessuno invitava in pista, lasciandole a meditare su quali doti affinare per far capitolare qualcuno. L’abbinamento tuttavia meglio riuscito è forse quello avvenuto tra due reietti, il ragazzo che consumava le suole in un inutile giro conquistatore e la ragazza ignorata perché poco avvenente. Accoppiati, arricchiti, rincuorati a vicenda, messa al mondo un’agguerrita prole, si son rifatti oggi delle umiliazioni di allora a suon di telefonini, visoni selvaggi e automobili abbastanza belle da offrire un buon riscatto sociale. Sembrano persino più belli. La mia generazione non è cresciuta nel mito dei “poveri, ma belli” degli Anni Cinquanta , si è optato per i “passabili, meglio se benestanti”. D’altra parte, la “zampa d’elefante” e la vita bassa con la gamba mediterranea, non avrebbero potuto produrre un gran vanto estetico…
Non tutti i ragazzi alessandrini, maschi e femmine, frequentavano i locali da ballo. I rampolli delle famiglie-bene si mescolavano poco alla plebe, avevano altri luoghi dove organizzavano feste scolastiche e festeggiavano privatissimi compleanni, in cui si annusavano a vicenda per formare coppie che stringessero buoni patti patrimoniali e fondessero cognomi prestigiosi, o presunti tali, a ragione, perché non c’è parte del mondo in cui i quattrini non regalino una sorta di blasone.
Gli “impegnati” invece disdegnavano ogni forma di divertimento di massa, puro consumismo sciocco. Disprezzavano la musica che si ascoltava nei locali, s’infuriavano al pensiero che per divertirsi fosse necessario pagare ed in ogni caso preferivano distrazioni che non distogliessero dalla lotta del e per il proletariato.
Gli “alternativi” riscoprivano le osterie, le cantine, il vino rosso e le danze popolari dedicandosi a piaceri proletari, a cui nessun contadino ad operaio degli Anni Settanta si sarebbe mai dedicato, se non un giorno o due all’anno, per ridere, alla festa del paese.
In un locale da ballo avrebbero messo un piedone maldestro all’alba dei trent’anni, dopo aver fatto pratica sul ballo a palchetto di qualche Festival, ormai imborghesiti, ingrassato nel corpo e nel portafogli.
C’era chi, come me e pochi altri, teneva il piede in due scarpe. Dura essere intellettuali cerebrali, lottatori senza paura nei giorni feriali, con la complicità della famiglia e sotto l’occhio tollerante di professori conniventi o rassegnati e poi, al sabato fondarsi dal parrucchiere per esser pronti, alla domenica a sudare, contorcersi, saltare, ridere e “puntare”, colpevoli, su una pista da ballo…Gli anni di piombo di molti contestatori erano, in realtà, caricati a stagno.
La gioventù tuttavia non è mai spensierata come il mondo più adulto crede, il riconoscimento del proprio ruolo è conflittuale, ci si rende conto del proprio impatto ambientale, dell’ascendente che si può avere o ci può essere negato sul piano personale. I primi  amori possono essere letali per la crescita interiore.
I ragazzi dei primi Anni Settanta soffrivano e gioivano con la musica di Battisti. Amavano di ripiego, ma “lui” o “lei” tornava in mente, bello com’era o forse ancor di più.
Facevano i conti coi pochi soldini in tasca, perché al “ventuno del mese” le entrate di molte famiglie si erano estinte ( e qualche critico invece accusò Battisti di assenza di realismo di classe…).
Soffrivano se qualcuno aveva perso l’innocenza prima di loro e lontano, sciolte le “trecce bionde” e levate le “calzette rosse”. Piangevano di un tradimento, increduli, negandolo, perché “ non era Francesca” e non poteva gettarli via così. Chiedevano d’esser a loro volta perdonati per una leggerezza “seduti in quel caffè” e poi non era che un gioco, “non era un fuoco”, ma i”salami” singhiozzavano egualmente.
Ci si apriva cauti e timorosi a confessare anche emozioni terribili, come il desiderio di sfidare la morte “guidando a fai spenti nella notte”, ancora ignari che a certe provocazioni la morte sghignazza, perché ha sempre, prima o poi, partita vinta. In realtà non era che un grido di dolore rivolto alla vita, perché prestasse qualche materna attenzione in più.
Di illusione in disillusione, si comunicava ad un certo punto che le “mani non tremavano più” e forse era giunta la voglia di una vita seriamente a due. Ci si faceva forza, dopo un abbandono con “io vivrò senza te” senza ritrosia nel descrivere una casa trasandata nel dolore coi suoi “piatti sporchi da lavare”, ma anche non volendo si “riprendeva a volare”.
Negli Anni Ottanta chiesi a un musicista di piano-bar , di un festival di partito, l’esecuzione di “Anche per te”, una splendida canzone, per giunta molto femminista. Mi fu negata. Battisti era di destra, la motivazione. Sempre stato e per giunta finanziatore di Ordine Nuovo.
Era vero? Forse no, forse invece sì. Nessun uomo di sinistra avrebbe detto a una ragazza “vorrei morir per te”, sarebbe morto per la Causa, forse. Per il Popolo (astratto), forse, per lei o per me, sola, piccola, insulsa cosa, No.
Negli Anni Ottanta poi, cambiati i principi ideologici informatori, per la “Carriera” mi avrebbe anche schiacciata con la Mercedes.
Il 9 settembre 1998 Lucio Battisti è morto.
E’ già andato, apripista della mia generazione. Ci ha preceduti, ci aspetta, ci ricorda che marzo è passato. La primavera di noi ..antenni è sfumata.
Qualcuno starà vivendo i suoi bei giorni d’estate, godendo dei frutti maturi che ha ottenuto seminando la sua vita. Altri sentono l’autunno nelle ossa. Per qualcuno, ma se ne tace mesti, per allontanare il pensiero, l’inverno è già arrivato, come per Lucio.
L’acqua è azzurra, è chiara, trasparente per alcuni, per altri il mare è nero…ma il coraggio di vivere ancora non c’è. E’ il segreto inconfessabile. Per una lira, vendesi sogni usati.
Sogni da provinciale, da voci da torpedone. Il super Io è maturato con De André, con Guccini, ma dentro…si agita un animo egocentrico e sentimentale. Chiamatele, se volete, emozioni. O innocenti evasioni.
Balla Linda, ogni lasciata è persa.

* Circolo collegato alla locale squadra di calcio, il cui simbolo è un orso grigio





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